In una graduatoria ideale dei redattori del “Secolo d’Italia” che hanno fatto brillanti carriere nel giornalismo, Mauro Mazza si troverebbe al primo posto. O meglio, forse, a un primo posto ex aequo, insieme a Gaspare Barbiellini Amidei. Quest’ultimo era entrato negli anni ‘50 al “Secolo” anche perché figlio di un gerarca, il conte Bernardo, caduto eroicamente nella guerra d’Etiopia. Almirante, che dirigeva il giornale, dava molta importanza alla componente familiare ed etica nelle assunzioni. Per esempio, rifiutò la collaborazione a Pitigrilli, che pure era stato uno scrittore da best seller, perché era stato una spia dell’Ovra: spia fascista, ma pur sempre spia. Dino Segre (questo il suo vero nome) dovette rinunziare e scrisse fin quasi alla morte, lui che in gioventù passava per un pornografo, sul “Messaggero di Sant’Antonio”, che all’epoca era un mensile diffusissimo e, si spera per lui, remunerativo. Retaggio familiare a parte, quello di Almirante fu comunque un buon acquisto: grazie alle sue straordinarie qualità, il giovane praticante divenne caporedattore per poi passare al “Giornale d’Italia” e al “Corriere della Sera”, dove il giorno del suo arrivo Montanelli gli fece trovare sulla scrivania un ritaglio dell’articolo sulla morte eroica di suo padre, che aveva scritto come inviato di guerra. Prima di passare al “Tempo” come direttore, divenne vicedirettore vicario del “Corriere”. Sotto la direzione di Piero Ottone, direttore di sinistra, ma formatosi sul “Tramonto dell’Occidente” di Spengler, Barbiellini Amidei invitò, lui cattolico moderato, a collaborare alla prima pagina Pier Paolo Pasolini.
Il caso di Mauro Mazza è diverso, ma presenta anche qualche affinità. Di formazione cattolica come lui, molto influenzato dal magistero di don Ennio Innocenti, autore in gioventù di un saggio su Papini, che ha di recente ripubblicato, approdò al “Secolo d’Italia” diretto da quel grande comiziante e finissimo letterato che fu Nino Tripodi, capace, nelle more dell’attività politica, di scrivere in un partito di ammiratori di Marinetti saggi sui poeti crepuscolari (ma un successo molto maggiore l’avevano i suoi pamphlet sui “voltagabbana” passati dagli archi di trionfo nei Littoriali all’arco costituzionale). Mazza vi rimase fino alla fine degli anni ’80, quando passò all’agenzia Adn Kronos. Alla Rai arrivò per il suo fiuto di reporter ancora in tempi di prima repubblica, e da lì scalò rapidamente tutti i gradini, divenendo vicedirettore del TG1, direttore del Gr2 e in seguito addirittura direttore della prima rete. Un incarico cui avrebbe forse preferito la direzione del Gr1, più congeniale alla sua formazione giornalistica, ma che comunque svolse con ottimi risultati, salvo finire vittima delle epurazioni dell’ineffabile governo di quel Monti che ebbe l’arroganza di annunciare il nuovo direttore generale dell’azienda di Stato in una conferenza stampa, cosa mai avvenuta prima. È stato un male, perché la Rai ha perso un grande professionista, il primo, tra l’altro, a comprendere l’importanza e la pericolosità del “grillismo”, ma anche un bene, perché, non più alle prese con l’adrenalina della notizia da non “bucare” o la paranoia dei palinsesti, è potuto tornare alle sue passioni di gioventù: lo studio e la scrittura.
Non che nei lunghi anni di Mamma-Rai Mauro avesse abbandonato le buone frequentazioni culturali. Mi piace anzi immaginarmelo, fra un Tg e una riunione del comitato di redazione, dedicarsi alla lettura, un po’ – si parva licet – come il Machiavelli che a Sant’Andrea a Percussina dopo essersi ingaglioffito a giocare a carte con i popolani all’osteria indossava i “panni curiali” per discorrere con i classici (la “cricca” e il “trich trach” cui giovava Machiavelli non sono del resto meno volgari di certi giochi di potere in Rai e certi direttori generali non si sono comportati più educatamente dei “beccai” e “fornaciai” frequentati dal segretario fiorentino in esilio).
Già nel pieno dell’attività giornalistica, nel 2006, Mazza aveva scritto un bellissimo libro di ricordi, “I ragazzi di via Milano”, dedicato al suo apprendistato al “Secolo”. Ma la varietà e anche la profondità della sua produzione negli ultimi anni è impressionante. Si spazia da romanzi storici o fantastorici come “L’albero del mondo” e “Il destino del papa russo” a un pamphlet coraggioso come “Bergoglio e pregiudizio”, in cui si esprime il suo cattolicesimo dolente per la difficoltà di conciliare “jus” e “mos” e allarmato per le cose dell’altro mondo dette e fatte dal pontefice venuto dall’altra parte del mondo. Ora è la volta di “In-coscienza”, qualcosa di più serio di un pamphlet e di meno serioso di un trattato di filosofia. Un’opera affascinante e complessa pur nella sua scorrevolezza giornalistica, che si presta a una duplice chiave di lettura: bilancio di un’esperienza personale e collettiva, e al tempo stesso denuncia dei mali del nostro tempo e ambiziosa proposta di una ridefinizione delle categorie del politico. Non guastano, in appendice, una sintetica storia del mondo cattolico, un’intervista sulla storia della destra dalla nascita del Msi al dissolvimento di An e un capitolo sulla “comunicazione vincente” e il fenomeno Trump. Questa compresenza di tematiche diverse si rivela un aspetto positivo, perché la riflessione etico-politica o filosofico-teologica non pecca di eccessiva astrattezza affaticando il lettore e la componente memorialistica o cronachistica non scade mai nel pettegolezzo, anche se non manca una ricca aneddotica.
Partendo anche dalla propria esperienza personale e generazionale, Mazza analizza la crisi del nostro tempo, il malessere morale di un Occidente afflitto da relativismo etico, carenza di leadership politica, pulsioni autodistruttive della Chiesa cattolica, e per questo incapace di far fronte sia alle “manipolazioni mentali, chirurgiche, e psichiche” indotte dalla hybris di una scienza sempre meno controllata dalla bioetica, sia ai processi di sostituzione etnica promossi dai poteri forti. Come alternativa alla crisi Mazza indica il ritorno a un cattolicesimo non più impregnato dal “fumo di Satana”, perché, come egli scrive, citando il grande T.S. Eliot, “se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura”.
Non è difficile cogliere nel saggio una sottile vena di nostalgia, o, visto che Mazza trascorre ormai buona parte dei suoi giorni in Portogallo, saudade. Nostalgia per la Chiesa di papa Wojtyla e Ratzinger, che indicava come diritto delle genti non trasferirsi in massa senza controlli, bensì “non essere costretti ad abbandonare la propria terra”. Nostalgia di una politica in cui ai leader era richiesto “il dominio di sé (e della consecutio temporum)”, in cui tutti i partiti erano orgogliosi delle loro radici storiche e culturali e gli intellettuali erano contesi da tutti i partiti, dal Pci di Berlinguer, che candidava i cattolici del dissenso, al Msi che regalò un seggio in Senato ad Armando Plebe (Berlusconi in un primo tempo riprese quella tradizione, candidando un Melograni, un Pera, un Villari, un Colletti, un Mathieu; ma poi tornò il tempo dei nani e delle ballerine, che Craxi però portava in camera da letto, non alla Camera dei deputati).
Molte pagine del saggio sono dedicate alla parabola della destra e alla crisi di Alleanza Nazionale. Rispetto ad altri commentatori, che tendono ad addebitare il declino di Fini alle sue vicende sentimentali (vecchio vizio neofascista: i nostri padri davano la colpa degli errori di Mussolini alla Petacci, che gli aveva “spappolato il cervello”!), Mazza retrodata con molta lucidità la crisi del leader al 2003, quando fu nominato rappresentante italiano del gruppo di lavoro che avrebbe dovuto scrivere la Convenzione per il futuro dell’Europa. In un primo tempo, vista anche la scelta di nominare proprio consigliere un cattolico tradizionalista come Roberto de Mattei, pareva che, pur essendo agnostico in materia religiosa, Fini avrebbe perorato l’inserimento nel preambolo alla Costituzione del riferimento alle radici cristiane dell’Europa. Poi però, a contatto con il mondo dei Giscard d’Estaing, dei Giuliano Amato, degli “illuminati” laicisti il suo atteggiamento cambiò. E venne il tempo delle prese di posizione traumatiche che l’avrebbero gradualmente allontanato dal sentire dei suoi elettori, ponendo le premesse per lo scioglimento di An.
Non posso che confermarlo, per un motivo: in quella primavera del 2003 fui cooptato da Giuseppe Valditara e dallo stesso de Mattei, che la presiedeva, nella commissione che avrebbe dovuto dare suggerimenti a Fini nel suo incarico e, in quanto più giovane, a parte lo stesso Valditara, e meno titolato vi svolsi il ruolo di segretario. Le riunioni si susseguirono a ritmo cadenzato nella primavera-estate, un po’ a Palazzo Chigi un po’ a Palazzo Madama; da qualche parte conservo ancora copia dei verbali che stendevo a mano. Non dico che fossimo dei novelli Licurghi o Soloni, ma qualche suggerimento saremmo riusciti a darlo. Al momento di stendere il documento finale, nessuno ci chiamò più né ci ringraziò, nemmeno con una telefonata. Ovviamente, avevamo fatto tutto, volentieri, a titolo gratuito. Io ci rimisi anche qualche biglietto del treno, perché alle prime riunioni la mia nomina non era stata ancora formalizzata. Ma a rimetterci di più, mi si perdoni il peccato d’orgoglio, è stata la Destra e, forse, anche l’Europa.
Enrico Nistri
p.s. Sono amico personale oltre che estimatore di Mauro Mazza. Per questo mi sento in dovere, per scrupolo di obiettività, di segnalare alcuni piccole inesattezze attribuibili in parte per altro al suo intervistatore nel capitolo dedicato alla storia della Destra. “Nuova Repubblica” non era un movimento neofascista: il suo fondatore, Randolfo Pacciardi, era stato un combattente delle Brigate Internazionali nella guerra di Spagna e sarebbe tornato negli ultimi anni della sua vita nel Partito repubblicano. Vi entrò, è vero, Giano Accame, ma dopo avere lasciato il Msi. Quanto alla barzelletta sui democristiani che nel Colosseo si mangiano i leoni, va retrodatata di molti anni rispetto all’epoca in cui Mauro la colloca. Me la sentii raccontare che ero ancora bambino alla fine degli anni ’50. È la prima barzelletta politica che abbia ascoltato, e neppure la peggiore. Dubito infine che Gianfranco Fini avrebbe risolto la situazione nel 2008 imponendosi per fare il presidente del neonato Partito della Libertà invece che il presidente della Camera, e questo per due motivi. Il primo è che aveva dimostrato di non volere o saper fare nemmeno il presidente di An, lasciando campo libero al cannibalismo torrentizio. Il secondo è che Berlusconi non gliel’avrebbe mai consentito: un Ad (o Ceo, come usa dire oggi) non rinuncia mai al controllo di un (partito) azienda. Per questo Fini fece bene a scegliere per la presidenza della Camera, l’unica carica da cui Berlusconi non avrebbe potuto dimetterlo. Fece un pessimo uso della posizione ottenuta, ma questa è un’altra storia.
Enrico Nistri