Ho conosciuto Marco Paganoni che avevo appena iniziato l’università. Sarà stato nell’Ottanta o nell’Ottantuno: lui, allora, doveva avere quasi novant’anni, ma si portava ancora benone. Era un omone alto, corpulento, con due occhi pieni di ironia fanciullesca, che lo facevano sembrare molto più giovane.
Ricordo che mi recai da lui, la prima volta, perché stavo raccogliendo, per il quotidiano locale, testimonianze di reduci bergamaschi della Grande Guerra: Bergamo è una piccola città, dove ci si conosce tutti e, attraverso le vie misteriose di amicizie e parentele, mi avevano parlato di questo ragazzino dai capelli bianchi, che aveva combattuto nella prima e nella seconda guerra mondiale, oltre che in Spagna, nella guerra civile. Era uno dei pochi reduci ancora vivi e la sua leggendaria lucidità, di cui mi avevano accennato, mi fece ben sperare: una preda preziosa per il mio dossier.
Paganoni abitava nella vecchia casa di famiglia, in Castagneta, sui colli di Città Alta: un edificio letteralmente immerso nel verde dei castagni, quasi un’isola di val Brembana, che fosse affiorata in centro, in virtù di chissà quale fenomeno tellurico. Il reduce viveva lì, in compagnia di un famiglio, vecchio quasi quanto lui, ma molto più decrepito, due gatte e un grosso cane bianco e nero, che si chiamava Pierone. Quando varcai l’ampio e fresco vestibolo, provai la sensazione, non del tutto tranquillizzante, di tornare di molti anni a ritroso nel tempo: le cose erano come avvolte da una penombra e ogni tavolino, ogni mensola dell’atrio d’ingresso erano letteralmente stipati di oggetti che parevano le scorie di un’alluvione primordiale, d’indescrivibili cianfrusaglie, di bibelots, di vecchi portafoto, di tagliacarte, di bomboniere d’argento.
“Io sono molto vecchio, sa: e la mia famiglia è molto ma molto più vecchia di me: se non butti via niente, le cose finiscono per accumularsi…”. Mi voltai come se fossi stato colto sul fatto a rubare: “Buongiorno..” dissi “..non volevo sembrare troppo curioso, ma tutti questi oggetti, per uno storico, sono piuttosto ipnotici.”. Il vecchio fece un gesto con la mano, come per dire che capiva benissimo e che non c’era problema: guardassi pure quanto mi pareva. Dopo un tempo che giudicò ragionevole, si avviò verso il piccolo salotto alla destra del corridoio e si sedette in una di quelle ampie, comode poltrone, che oggi, in quest’epoca di designer svedesi e di architetti stitici, sembrerebbero dinosauri antidiluviani: le molle scricchiolarono pericolosamente, sotto il quintale abbondante del canuto nobiluomo.
“Così, lei è il fidanzato della Federica?” domandò cordiale “E vorrebbe che le raccontassi qualcosa della mia esperienza di guerra, giusto?”. La Federica era una sua nipote, neppure troppo lontana: di cognome faceva anche lei Paganoni, allora. Adesso è la signora Cimmino, ma questa è un’altra storia. Mi limitai ad annuire col capo: non so perché, ma quel vegliardo mi ispirava un’asciuttezza di modi e di parole, che mi ricordava il servizio militare. “Caro il mio giovanotto, io posso pure parlarle del Grappa e della Spagna: farle dei nomi, mettere in fila delle date, ma la guerra, la guerra vera, quella che ti porti dentro tutta la vita, quella mica la puoi raccontare. Eh, ci vorrebbe della sgnappa di quelle buone e qualcuno che l’abbia provata, la guerra, per provare a raccontarla per davvero: ma la sgnappa me l’ha preclusa quel fesso del mio dottore e lei mi sembra un po’ giovanino per aver fatto qualche guerra…”. “Però ho fatto l’ufficiale, negli alpini!” replicai, quasi per giustificarmi “Che reggimento?” “Nel Quinto!”. Mi sembrò che, dietro lo sguardo un po’ annebbiato dal velo della cataratta, passasse un lampo d’ironia: certo, nel Quinto, si capisce…”Era nel Quinto anche lei?” azzardai. “No, no, sì, cioè, prima ero nel Quinto, per forza: un Paganoni va nel Quinto a prescindere. Figa, non mi ricordo bene, maledetta età! Ero negli Arditi, con Giulio finimmo negli Arditi: un bel casino…”.
La parola volgare mi stupì un poco, ma compresi che lui sembrava essersi improvvisamente scordato della mia presenza: lottava con la propria memoria che faceva cilecca, come fa un judoka, girandole intorno. “Con Giulio ero…”. Gli vidi fare una smorfia stranissima, che non ho più dimenticato: fu come se sorridesse e piangesse insieme, ma tutto dentro la propria anima, senza muovere un muscolo. Fu solo un attimo: riprese subito il suo tono cordiale e un po’ ironico.
Andammo avanti un’oretta a rievocare nomi e date: io prendevo appunti con aria professionale e lui mi dava corda. Parlò anche di Fiume, di D’Annunzio, della Spagna, perfino dell’Etiopia, e di gente che non riuscivo a collegare alla storia: un certo Dado, questo Giulio, il cui nome ricorreva spesso, dei nomi di donna e uno, in particolare, che pronunciava come una preghiera, come sussurrando.
Tornai spesso a trovarlo: eravamo diventati quasi amici. Mi accoglieva in giardino o sotto la volta del portone con un “Ada chè ol profesùr!”. Mi raccontò più lui della guerra di quanto avrei mai potuto imparare da mille libri. Ma c’erano cose che, capivo, non mi aveva raccontato fino in fondo: quando arrivava al dunque, si fermava, esitando, quasi chiedendosi se potevo ascoltare certi discorsi, con un misto di pudore e di protezione nei miei confronti. “Ta sett isè zuen…” (sei così giovane…) mormorava, e cambiava argomento.
L’ultima volta che mi recai in Castagneta a trovarlo, era già a letto, per quella polmonite che lo avrebbe ucciso di lì a poco. Nella stanza dall’alto soffitto aleggiava uno sgradevole odore di vecchiaia e di malattia, ma lui sembrava non farci il minimo caso: puzza inevitabile, diceva. Da tempo mi dava del tu: si vede che mi considerava una specie di nipote acquisito e, con tutti i nipoti veri che aveva, uno più o uno meno faceva poca differenza.
Poco prima che mi congedassi, quando anche Oreste, il vecchio famiglio, se n’era uscito per sistemare due uova per la cena, posò una delle sue mani enormi sulla mia e cominciò a parlare velocemente, come qualcuno che abbia molte cose da dire e temesse di non avere abbastanza tempo. “Senti…” disse “bisogna che ti dica una cosa: se non la dico a te, me la porto nella tomba!” Mi sentii lusingato e imbarazzato al contempo: “Ma certo, certo, signor Conte…”. “C’è una storia, una storia bellissima e terribile: tante volte ho cercato di scriverla, di metterla giù, sì insomma, ma non ci riesco, è troppo dura per me, troppo personale…”
Mentre la luce autunnale andava scomparendo dalle cime dei castagni, quel vecchio nonagenario che stava morendo mi raccontò la storia di amicizia e di amore più bella che abbia mai ascoltato nella mia vita. Mi parlò di Giulio e della loro amicizia formidabile, del suo amore terribile e meraviglioso, dei loro compagni: nessuno era stato dimenticato, nessuno abbandonato. “Questa storia” mi disse, alla fine del suo lungo racconto “l’ha raccontata anche Giulio a un suo lontano parente di Roma, che scrive, fa il giornalista, lo scrittore, sapie me: anche lui non riusciva a scriverla… si chiama Marconi, come l’inventore, Gabriele Marconi… cercatevi, parlatene: tu sei uno storico, lui uno scrittore, magari non è una storia così del menga!”. Non capivo cosa volesse precisamente da me, ma non mi azzardai a domandarglielo: mi sembrava che avrei tradito la nostra nuova complicità: che l’avrei deluso visto che pensava che avrei ben saputo cosa fare.
Non disse più nulla di questo: Oreste rientrò con le uova, io profferii qualche cortesia piena d’imbarazzo e, quasi scappai via. Pierone, che ormai mi conosceva bene anche lui, fece per seguirmi, ma Paganoni lo bloccò con un perentorio: “Gnolini!”. La cosa, sul momento, mi stupì: seppi solo molto tempo dopo, e per ragioni che mai avrei immaginato, che tutti i cani del conte si chiamavano, invariabilmente “Gnolini”, quale che fosse il loro vero nome. Otto giorni dopo, il 18 novembre, Marco Paganoni morì.
Passò del tempo: studiavo, avevo il mio daffare con Federica e non mi rammentavo molto spesso del vecchio reduce e della sua storia misteriosa. Si dimentica con noncuranza, quando si è giovani e un po’ stupidi: e io ero entrambe le cose. L’estate successiva, quella del 1983, Federica ed io decidemmo di andare in vacanza in Calabria, a Roccella Jonica, dove una sua compagna di scuola, Marilù, aveva una bella compagnia di amicizie estive. La sera che arrivammo a Roccella, non conoscevamo nessuno, tranne Marilù, ma già a cena avevamo fatto amicizia con tutti: ragazzi simpatici e belli, come poche volte mi era capitato di incontrarne. Tra tutti, provai subito un’istintiva simpatia per un mio coetaneo romano, che si chiamava Gabriele, molto scuro di pelle, con occhi acuti e un fisico asciutto. Finimmo davanti a una birra a chiacchierare: a un certo punto mi domandò a bruciapelo: “Scusa, ma mi è sembrato di capire che la tua ragazza di cognome si chiami Paganoni, mi sbaglio?”. Lo guardai un tantino sospettoso: “Sì, esatto, si chiama Paganoni, perché?”. “Curioso, è il cognome di un amico di un mio lontano parente: uno con cui ha fatto la guerra. Zio Giulio mi parlava sempre di questo Marco Paganoni…”. Lo guardai incredulo: “Giulio Jentile….”di colpo mi tornarono alla mente tutti i particolari del racconto del vecchio conte morente, e le sue ultime parole, che, allora, mi erano parse senza senso: “Fino alla tua bellezza!”.
Gabriele mi guardò e vidi nei suoi occhi il medesimo stupore: “Fino alla tua bellezza!” esclamai “Fino alla tua bellezza!” ripeté guardandomi fisso. E ci abbracciammo come due fratelli che abbiano, all’improvviso, ritrovato un padre che credevano perduto. “Un giorno, lo scriverò, questo libro” disse Gabriele “Lo giuro!”. Poi, raggiungemmo gli altri, che stavano cantando intorno al fuoco, con le nostre birre in mano. “Fa un freddo bestia, per essere ad agosto…” esclamai. E scoppiammo a ridere.