Spero non scandalizzi nessuno il racconto della mia vita privata. Ho un pubblico
ménage à trois: siamo due uomini e una donna. Dapprima abitavamo insieme la donna e io. Ella si chiama Isaura. Mi dicono i cretini: “Ah, dal nome della schiava?”. Pare sia un personaggio di una telenovela. Isaura è invece la protagonista di Jacquerie di Gino Marinuzzi, uno dei capolavori del teatro musicale del Novecento. È una certosina dal carattere altero e riserbato, capace di affetto quieto, a volte espansivo: ma chi passa per casa mia lo valuta in una frazione di secondo, e se non le piace scompare. Io ho un grande terrazzo e due balconi che guardano il Golfo; ma più che una casa la mia è una biblioteca con casa annessa. Isaura ha subito concepito amore per i libri, e ama sonnecchiare, per esempio, sulle pagine della Treccani (prima edizione) aperte. Giunse da me, minuscola, nei giorni di maggio 2015, quando si preparava la mia uscita dal “Corriere della sera”; io m’infastidivo delle telefonate dell’avvocato che seguiva la pratica essendo tutto concentrato sul fatto che Isaura si trovasse bene nella sua prima casa. Dal terrazzo, attraverso una scala, si discende in un grande giardino condominiale, abitato da merli, corvi, gazze e gatti senza proprietario. Isaura, col suo carattere indipendente, va e viene giorno e notte; per affetto, viene a mettersi sul mio letto quando dormo (d’inverno, sotto le coperte); ma la sua notte è misteriosa e vagabonda. Alle 4 del mattino mi sveglia perché vuole il bocconcino. Poi se ne va e io mi riaddormento un’oretta.
Tutto cambiò il 25 giugno del 2017. Arrivai da Lecce col piccolo Ochs, un bassotto di sessanta giorni. (Incredibile. In Campania non esistono allevamenti di bassotti se non nani, quegli orrori genetici simili a topi!) Il viaggio – quale fausto omen – lo fece in braccio a una delle più affascinanti donne napoletane, la grande attrice Lara Sansone. Già la prima notte Ochs, ch’era un po’ spaurito, dormì sul cuscino a fianco del mio.
Isaura scomparve. Per sei giorni nessuno la vide più. Compresi che il fatto era serio. Alle cinque del mattino scesi nel giardino chiamandola in tono implorante. Si mostrò un istante, e sparì. Il giorno dopo scesi con la ciotola della sua colazione. Non la toccò. A poco a poco si degnò di giungere al confine, di assaggiare qualche boccone. Dopo non meno di un mese rientrò in casa. E si accorse che la presenza che aveva scatenato un moto, non dirò di gelosia, ma di autentico dolore per un creduto tradimento, era di un cucciolo molto intelligente che aveva bisogno di una mamma. In questi termini sottomessi, sorridenti, le si avvicinava. Isaura incominciò a coccolarlo, a farlo giuocare, a tirargli la pallina. Ci mancava poco che lo leccasse. Adesso convivono affettuosamente, e dormono sul mio letto; ma un bassotto, pur se intelligentissimo, non può arrivare a comprendere che una gatta s’infastidisce di troppe effusioni. In certi momenti, ella le accetta; ma solo in certi momenti. Per fortuna hanno gli stessi gusti musicali: Les Troyens di Berlioz, Ravel, Johann e Richard Strauss.
Vittorio Feltri avrà da darmi, in fatto di psicologia felina, infinite lezioni, essendo egli il patriarca dei nostri gattolici. Ma mi fa piacere di parlare di un libro delizioso scritto da un gattolico assai più giovane di noi. Si tratta de Il gattolico praticante. Esercizi di devozione felina di Alberto Mattioli (Garzanti, 2019, pp. 135, euro 15). L’autore (non può farla a un altro vizioso) è dedito anche al vizio della lettura: la sua erudizione non la ostende ma essa lo tradisce.
Mattioli, che non ho mai incontrato, scrive in un italiano corretto ed elegante, oggi raro, Come farebbe, se non avesse il vizio, a conoscere il nome di tutti i gatti che il cardinale di Richelieu teneva sul letto, vezzeggiava, con loro passando le notti insonni? Un grande ammalato, Richelieu, che forse senza la compagnia di tanti gatti sarebbe morto prima; il gatto infonde salute e benessere; a Napoli si crede (parlo della dimenticata sapienza tradizionale) che una casa senza un gatto non sia benedetta dal buon augurio. E il Cardinale forse dalla loro intelligenza ricevette il consiglio su come far cadere l’imprendibile fortezza de La Rochelle.
Mattioli prova per i gatti una devozione assoluta, ma tenera, motivata, intelligente. Nel breve giro del libro dona un ritratto profondo della psicologia felina, un unicum nella natura. Il gatto è intelligentissimo, più del cane – debbo ammetterlo -: forse solo l’elefante e il delfino lo eguagliano. Ma non ha alcuna vanità di palesare la sua intelligenza. Anche perché il rapporto con il suo ospite è rovesciato rispetto a quello che abbiamo con tutti gli animali domestici. Pretende di essere servito, addirittura adorato. Mattioli apporta argomenti per dimostrare la fondatezza di questa pretesa. Io non posseggo la sua competenza in fatto di felini, ma posso rivendicare una benemerenza che mi verrà riconosciuta: nel mio libro del 2017 edito da Marsilio Il canto degli animali. I nostri fratelli e i nostri sentimenti in musica e in poesia ai gatti dedico decine di pagine, cito alcuni dei quadri ricordati da Mattioli nel suo (Lotto, Lanfranco), e intitolo un capitolo Natura divina del gatto. Suoi simboli. Insomma, con Mattioli siamo quasi fratelli spirituali.
A differenza del mio, il suo libro è diretto agli esclusivi cultori del gatto, che sono falange sin dall’antico Egitto. Infatti ha avuto da aprile già cinque edizioni. Ma si rivolge a qualsiasi lettore colto per i piccoli celati doni che racchiude, fatti anche di sagaci riflessioni generali. È così interessante da poter offrire spunti anche a un eventuale odiatore del gatto o a lui indifferente.
Egli conosce nelle risposte pieghe le sue divinità. Dimostra come esse siano individui, ciascuna dotata di un carattere e intelligenza assolutamente propri e diversi. E spiega come si debba impostare l’infinitamente delicato rapporto col gatto domestico. Che cosa si debba fare; che cosa, soprattutto, non si debba fare: data la sensibilità sottile e la memoria lunghissima di queste divinità bestie. Di gattolici praticanti ne conosco molti: un mio amico, un grande medico napoletano, è incominciato a deperire da quando due anni fa perdette Henriot; la recente morte della compagna Becky l’ha reso inavvicinabile e quasi intrattabile. Due persiani che aveva mandato a prendere a Nuova York, del culto dei quali era un sommo pontefice! Il fatto che loro vivano meno di noi è una tragedia; ma se la cosa fosse inversa, se un gatto o un cane dovesse sopravvivere al padrone, si scatenerebbe in loro un dolore cosmico, per noi inimmaginabile. Sono certo che Mattioli la pensi così.
*Da Libero del 30.7.2019
Chi ama veramente i gatti può farli castrare? Ed allora, in caso negativo, ha decine di gattini in casa da piazzare, ogni anno? E se il gatto è maschio, reduce da notturni duelli crudeli con altri maschi, quasi tutti i giorni lo porta dal veterinario per curare le ferite? Forse non sarebbe meglio che i gatti vivessero come tali, liberi, cacciando topi, uccelli ed amoreggiando follemente, senza doversi sorbire nè coltri d’umano odoranti, nè musiche ottocentesche?
Meglio un giorno da gatto che cent’anni da peluche!
Faccio anch’io parte della schiera degli ailurofili e ho trovato sempre interessanti gli aneddoti e le tradizioni riguardanti i gatti nelle varie culture, quindi acquisterò sicuramente il libro segnalato da Isotta. Interessante a proposito di aneddoti e narrazioni ciò che racconta la tradizione arabo-islamica.
Dal VI secolo attraverso la via dell’Egitto il gatto raggiunse anche i paesi arabi dell’Islam, dove l’animale eletto era il cavallo(vedasi leggenda delle 5 giumente e delle linee di sangue del puro cavallo arabo, razza superba a cui per esempio il noto purosangue inglese deve molto geneticamente parlando). Le simpatie suscitate dal gatto superarono però la fama degli equini in epoca islamica. La tradizione musulmana infatti riporta molte leggende intorno a questo animale. La più nota di queste narra che Maometto aveva costantemente al suo fianco una gatta chiamata Muezza, a cui voleva un bene infinito.
Muezza un giorno si addormentò sulla veste di Maometto e giunta l’ora della preghiera, Maometto indeciso sul da farsi, per non svegliare la gatta, recise il pezzo di veste dove essa dormiva. Al ritorno di Maometto la gatta gli andò incontro e per ringraziarlo gli fece un inchino e molte fusa.
Egli, lieto e contento di tale accoglienza, elargì doni divini per Muezza e i gatti a venire.
La accarezzò tre volte sul dorso e i “segni” rimasti, furono secondo la leggenda l’avvio per la colorazione “tabby” (fondo grigio con sottili strisce nere o marroni), inoltre ebbe in dono la capacità di atterrare sempre sulle zampe a qualsiasi altezza cadesse,le nove vite e ovviamente il posto in paradiso.
Un’altra leggenda narra invece che Maometto si ritrovò un serpente velenoso intrufolato nella manica della sua veste e siccome per il principio della religione non voleva fargli del male, si fece aiutare dalla gatta che non appena il serpente tirò fuori la testa dalla manica della veste prontamente lo catturò salvando la vita di Maometto. I gatti difatti sono gli unici animali liberi di stare nelle moschee ed essendo considerati puri(al contrario del cane) dai musulmani (come per gli antichi egizi) non possono essere colpiti malamente perché la legge islamica punisce severamente chi commette violenza sui gatti. Ovviamente in tutto ciò c’è molto di simbolico, legato ad una sapienza tradizionale di tipo mediterraneo-orientale che a Napoli ha avuto un epicentro fin dall’antichità(ma anche a Roma ancora oggi il gatto è venerato come nella colonia di Piramide in zona ostiense) . Vero è che molte esasperazioni ridicole si manifestano attualmente in nome dell’amore felino, ma ciò è un prodotto della volgarità moderna e “sozial” che rovescia ogni genere di aspetto della cultura tradizionale, culto del gatto compreso. Buone vacanze a tutti, gatti compresi.
Stefano. Anch’io amo i gatti, pur avendo ora in casa un cane e non un gatto. Per mio figlio e perchè dove vivo il gatto è, purtroppo, mal visto, associato a streghe e stregoneria…Quando vivevo in Centroamerica era fondamentale avere un felino in giardino per dar la caccia a una specie di vipera piccola e letale. La gatta era però sempre incinta…Il problema è il solito. Il gatto non castrato è fonte di molteplici dolori di testa. Ma ha senso amare i gatti e farli castrare, uccidere cioè gran parte della loro natura?
Già. “Nun c’è trippa pe’ gatti” sosteneva il sindaco di Roma prima della WWI Ernesto Nathan, Gran Maestro massone, negando ai gatti capitolini, nel quadro di una drástica riduzione delle spese, la trippa che prima veniva invece loro elargita… e costretti, quindi, a cibarsi solo di topi, attività per la quale era stata da molto tempo istituita la distribuzione…
Amo sia i cani che i gatti, e devo dire che Guidobono ha ragione nel considerare contraddittorio il fatto di amare un gatto e poi castrarlo. E’ una cosa crudele e può causare l’estinzione di una specie se applicata pure ai randagi.
A proposito del divieto(presente, come detto da Stefano, in molte culture) di far del male ai gatti, la memoria va sempre allo splendido racconto di Lovecraft “I gatti di Ulthar”, in cui una coppia malvagia pagherà cara (resteranno solo i loro scheletri) l’uccisione del micio del piccolo Menes; colpiti da questo avvenimento, i governanti del territorio stabilirono dure punizioni contro coloro che avessero ucciso felini in futuro.