Te lo dico io e ti devi fidare: il cinema contemporaneo, giunto alla tanto agognata perfezione formale, alla globale diffusione tramite abbonamento domestico, pacchetto intrattenimento, fa schifo. Anche quando è bello. All you can eat, orrore onnivoro da postproduzione e predominio della tecnica fine a se stessa, storytelling, format, target, fidelizzazione del cliente, casellari e prigioni per liberi spettatori da divano, inferno popcorn. Quello che ti piace, piace a tutti. L’idea dell’idea di guardare un film è sterco. Come d’altronde la letteratura e l’arte, politica sport e gastronomia in tv, l’abbigliamento e la comunicazione: tutto un appiccicaticcio pettegolare autoreferenziale, canovaccio rimasticato sulla contingenza, sul residuato del cadavere sociale o sugli Ufo nostri doppi, cugini volanti, sulle tendenze create per essere tradite dalle nuove, i buoni e i cattivi, la Storia in cattività vista al microscopio e rigirata come frittata di gomma, stanziali e migranti, ecatombi, solite coppie consunte, meccanici psicologismi, memorialistica seppiata, gli effetti speciali americani e i costumi italiani, pellicole per bambini, favole per adulti col moccolo al naso.
Cazzate insomma, e catastrofi, mostruosi ludi d’immedesimazione pecorile, apparato scenografico iperrealista quale recinto di pixel che sembra vero, simulazione e ripetizione, fughe nel fantastico confidenziale, prometeica evanescenza nel virtuale, sedativo e passatempo biblico, déjà vu nel quale lo spettatore può sentirsi in qualche modo perfettibile in casa d’altri, ospite di inesistenti replicanti ai quali assomigliare per poco più di un’ora; tuttavia sfugge sempre qualcosa al migliore dei mondi possibili – perché il cinema è la verità, è lo spettatore che vive in una replica poco interessante – alla tracciabilità ovina dell’utente modello, alla schedatura dei consenzienti abbonati supini, all’ex botteghino divenuto nel frattempo cosmico pulviscolo di numeri da sondaggio.
Tipo il cinema di Bruno Dumont, inclassificabile regista francese, tizio sorretto da studi filosofici, ma soprattutto genio appartato capace di proporre una costruzione filmica antitetica al giogo ruffiano del messaggio, della morale, dei rimandi nostalgici al già fatto e al già detto. Al già visto. Superficialmente accostabile a Kaurismaki per l’attitudine ad ambientare storie in alienanti – in quanto palesemente normali –, periferici contesti nordeuropei, Dumont si discosta nettamente dal finlandese grazie alla capacità di tramutare la fiaba dickensiana ripresa dal collega in incubo privo di fantasmi. Per altro senza che accada mai nulla d’eclatante, ma com’è della magia semplicemente creando i presupposti per qualcosa di latente, imminente, artefatto e antefatto di un mostro innominabile che resta nell’evocatorio, tormento minuto e tedio provinciale, pericolo relegato in atmosfera angosciante tutta da dimostrare.
Si prenda ad esempio Hors satan del 2011, pellicola di glaciale gotico contemporaneo – camminamento tra gli elementi, metaforico? eppure circoscritto tra sterpaglie costiere e anonima campagna, viatico solitario fatto di intraducibili pire pagane, fuochi campestri confinati in anfratti da discarica, preludio e controllo di forze brute a stento trattenute – intrisa d’ancestrale violenza mimetizzata, apocalisse svogliata arredata in movenze meccaniche, ritualistiche in quanto pur predestinate all’ovvietà codificata dei tempi nostri rifuggono deviando in una insondata forma d’introspezione, custodiscono un segreto atavico: abbigliamento, arredi, espressioni, consuetudini, colori degli occhi, rughe, rumori e silenzi, prati e boschi, acqua e fuoco, poche parole, dettagli bastanti per scardinare il doppio, per sabotare la rappresentazione, tutto il falso in cinema. Hors Satan non allude, non simula, non gioca coi rimandi, ma crudelmente mostra il volto del demone celandolo astutamente in clima; è il film stesso ad essere Satana, non ciò che narra. Optando per la sospensione dell’innominabile, per l’attesa già corrotta da fatti superflui che accadranno oppure no, la pellicola rilascia il suo zolfo sottrattivo. Pieni e vuoti. Le azioni si annullano nell’atto – il tizio spara col fucile e quell’altro cade stecchito, ma era già accaduto? – si riavvolgono in mistero, in reticenza; mosse nascoste tra le foglie deragliano in un contesto confidenziale, eppure sempre alieno: conta solo la latenza ossessivamente documentata: concatenazioni, corpi d’amore e odio, l’atmosfera fissata, ogni spostamento pare fatale, ciò che sta per accadere, il presentimento.
Giacomo Leopardi, Soren Kierkegaard: siamo in trappola e quei due non bastano a spiegare, forse solo l’attimo scritto con l’urgenza di James Joyce. Questo è un film nel quale si percepiscono gli odori e il tatto esercita il suo dominio sull’accaduto. Quello che resta dell’ignoto prende scorciatoie che allungano il tragitto, un barbarico pellegrinaggio tra segni imperscrutabili, hic et nunc fuori dal meccanismo intellettualistico tipico dei registi noiosi e dei mestieranti spettacolari: Dumont è un perfezionista del contrario, uno degli ultimi cercatori di terribili verità, uno smemoratore (anti) metafisico capace di mostrare il demonio dove non c’è – eppure è lì, con tutta evidenza – mentre gli altri si accontentano della maschera, giocano a fare loro stessi, auspicano un pubblico con gli occhiali, da vista o da sole. Dumont invece ti cava gli occhi, affinché tu possa vedere l’invisibile. Il risaputo rimosso, la catarsi della cronaca nera di paese, il non detto che pesa sulle nostre vite, qualcosa che turba in quanto pericolosamente attiguo, l’angosciante omesso replicato all’infinito, privo di confessionale e di consolazioni. Contano solo i corpi, in piedi tra le finzioni della vita.
Un affetto qualunque tra sconosciuti, amore bislacco, vero ma stanco, protettivo quanto gelido, distacco fatto di premure rimandate o risolte in punizioni; due mani che si stringono o si lasciano, la simulazione di un legame può dirsi per un attimo consensuale? Sfuggevole. Sesso fluviale con Ophelia, legame morboso tra sconfitti, sincronicità tra passanti muti, morti vere e presunte, resurrezioni, casuali sacrifici, atti predestinati tra i quali s’erge un abisso di vicinanza; poi nemici al villaggio, la polizia con i suoi furgoni blindati come proveniente da un altro mondo, abitatori guardinghi di casolari ancora oggi medievali, quadri fiamminghi arrugginiti, guaritori posseduti, avvicinamento circospetto tra solitari vaganti in squallidi paesaggi ritenuti civilizzati o talvolta naturalistici, belli quanto spaventosi, decaduti, sprofondati, il dito sulla mappa così lontano da Parigi… ma cosa importa? Torna in mente chissà perché il Faust di Sokurov.
C’è un pellegrino nei paraggi, fuggiasco demone, reietto campestre, der waldgang, comunque sia essere puro o fantasma incarnato, spiato da un punto di vista cinico e alieno – la cinepresa, poi i nostri occhi predisposti al falso – blandito da lacerti d’epoche contadine col tetto in eternit, forati e lamiere sulle barchesse, specchio di altri volti segnati, mercurio inseguito da certi olocausti impronunciabili, braccato da scandali insignificanti rinserrati tra quattro mura, dove il demonio festeggia gozzovigliando in purezza sull’innocenza pallida di una fanciulla; amori che hanno il pudore di non scadere in confessioni, reticenze, manie, che s’arrangiano sbrigativamente in fatalismo nordico, forse mai esistiti: addi frettolosi, delitti che tracciano confini, incisioni boschive sulle cortecce e incendi appiccati in favore di un retropensiero odorante premure e disastri da dimenticare velocemente. C’è una prova da superare per meritare la vita e il suo oltre. Dietro tutto questo chi c’è? Chi si nasconde? Un dio spossato forse, e il suo contrario più astuto. L’essere umano è un mostro, demiurgo insaziabile, vagabondo lucifero, eppure dalla crudeltà, dalla selvaggia gentilezza compaiono casualmente sconosciute immagini votive tutte da intuire, dall’empietà nascono atti redenti, omissioni e fughe tra sentieri inesplorati, perché la via del bosco precede sempre i passi, li inghiotte insaziabile; minuzie, enormità, obbedienze a comandi provenienti dall’alto o dal basso, tipo salvare una strega e condannare una fata. La sordida poetica cinematografica di Bruno Dumont non si spiega, non è traducibile perché c’è un mistero che la avvolge e la protegge; genera solo inquietudine, disagio, meraviglia, nostalgia, esattamente tutto ciò che non vorremmo vedere, quando siamo tentati dal farlo. Hors Satan è capolavoro criptico, uno dei pochi film che non ricordano qualcosa d’altro.