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Scrittore di milizia ed editore controcorrente. Marco Scatarzi è l’animatore delle edizioni “Passaggio al Bosco”, punto di sublimazione dell’impegno attivo della comunità militante fiorentina. Qui con Barbadillo Scatarzi presenta il progetto editoriale e le prossime sfide dell’area non-conformista.
Scatarzi, come nasce il saggio”Essere comunità”?
““Essere Comunità” nasce dalla necessità di mettere ordine attorno ad un termine che – da sempre – appartiene al nostro vocabolario militante. Tuttavia, con la massima umiltà, ho cercato di offrire un contributo interpretativo e formativo che potesse fornire degli spunti dottrinari, spirituali e operativi a tutti coloro che – con coraggio e buona volontà – si apprestano a costruire o a vivere questa meravigliosa forma di aggregazione.
L’ho fatto sulla scorta della mia esperienza – ormai ventennale – nella realtà di Casaggì Firenze, che mi ha iniziato alla militanza politica e ha restituito un senso e una direzione alla mia esistenza. “Essere Comunità”, dunque, nasce dalla prima linea dell’attivismo di strada: dalla trincea dell’impegno quotidiano a servizio delle Idee, lontano dai salotti intellettuali e dalle sterili elucubrazioni”.
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Perché ha scelto una immagine di lupi per la copertina?
“Perché i lupi rappresentano una manifestazione naturale della Comunità: hanno gerarchie e regole che restituiscono al branco una forma organica e vitale. Il lupo è un animale che ha popolato l’immaginario europeo per millenni, non solo in senso negativo, ma anche mitico, eroico e guerriero: il carattere indomito, il senso della libertà e la fedeltà all’istinto ne hanno fatto un simbolo prezioso, che ritroviamo nella – tre le altre cose – nella cultura norrena e in quella romana.
L’idea del lupo, inoltre, richiama un aspetto che va anche aldilà della Comunità militante: il legame di sangue – che certamente è diverso da quello di spirito – ma che suggerisce un preciso approccio all’idea di Popolo e di stirpe, totalmente opposta alla melassa mondialista e apolide, che ci vorrebbe tutti “cittadini del mondo”, sottomessi alle logiche dell’omologazione, del profitto e del meticciato universale.
E poi, un ultimo elemento: il lupo è un animale che non troveremo mai in un circo. Non è un caso che Ernst Jünger dicesse: “tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cos’è la libertà. E non soltanto questi lupi sono forti in se stessi, c’è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in un branco””.
Su che autori cardine si fonda la prospettiva comunitaria?
“Nel mio libro richiamo – in una prima parte – alcuni grandi nomi del pensiero comunitarista, che ci aiutano a tracciare un profilo generico della forma comunitaria, sopratutto nella sua antitesi alla società liquida e globale: da Ferdinand Tönnies a Marcel Mauss e da Marcello Veneziani a Costanzo Preve.
Ma “Essere Comunità” non vuole essere un trattato di sociologia: è un manuale militante, volutamente diretto a chi ha già fatto una scelta politica e necessita di orientamenti utili a confermarne la bontà e la direzione. Per questo, più che i grandi nomi del comunitarismo contemporaneo – molti dei quali sono distanti anni luce dal pensiero identitario o nazional-rivoluzionario che io sostengo – troviamo i riferimenti classici della nostra Weltanschauung: da Julius Evola a Berto Ricci, da Yukio Mishima a Corneliu Zelea Codreanu, da Lèon Degrelle ad Adriano Romualdi, dalla falange spartana alla legione romana, dai samurai al Bhagavadgītā, dai saggi orientali al Fascismo”.
Perché la quasi totalità degli autori citati nello studio sono della prima parte del Novecento? E cosa manca perché l’area non conforme ricerchi anche negli autori contemporanei riferimenti politici e letterari per una politica verticale?
“È vero, ma non totalmente: il testo riporta brani e riferimenti che sono stati vergati da persone ancora in vita: da Alain de Benoist a Massimo Fini, dal già citato Veneziani a Byung-chul Han. Del resto, il mio lavoro parla anche del mondo digitale dei social network, degli “sciami sociali” afferenti al sottobosco delle metropoli contemporanee, degli attuali assetti antropologici, valoriali e geopolitici di questo tempo: la prima parte è interamente dedicata ad una serrata critica – affrontata in senso propositivo e non solo protestatario – del terzo millennio.
Tuttavia, lo squilibrio è tutto a favore del primo Novecento. E il motivo è semplice: in quel momento storico, senza dubbio, si sono manifestate al massimo grado le temperie di un’epoca incendiaria che ha cercato – da diverse prospettive – un’alternativa concreta alla modernità del progresso e del capitale. Con la cesura della seconda guerra mondiale, aldilà delle successive ed apparenti conflittualità dei due blocchi, è venuta meno ogni reale possibilità di operare una trasfigurazione totale che ponesse in sintesi la giustizia sociale, l’aspirazione ad una visione spirituale dell’uomo e la valorizzazione del bagaglio identitario e tradizionale delle Nazioni e dei popoli. Un’opzione europea, che la tragedia di Yalta ha definitivamente affossato.
Da quel momento si è fatto spazio – fino a diventare egemone – il dominio dell’economico sul politico, dell’orizzontale sul verticale, della dismisura sul confine, del numero sulla qualità, del contratto sul dono, della governance sul governo, del meccanismo sull’organismo. Buona parte degli intellettuali, degli artisti o dei registi che popolano il dibattito pubblico, purtroppo, sono figli di un “pensiero unico” che si nutre di queste degenerazioni: non possono essere l’antidoto ad una decadenza della quale – senza dubbio – sono il prodotto più evidente.
Ma la presenza di autori ”datati” – del resto – non deve far pensare ad un nostalgismo incapacitante: non dobbiamo aver alcun complesso in tal senso, sia in positivo che in negativo. È necessario attingere, senza restare prigionieri. Ma è necessario anche svincolarsi dalla logica secondo la quale – per vivere il presente – ci si debba limitare alla sola proposta culturale del tempo in cui si vive: il rischio è quello di sostituire Seneca con Fabio Volo o Marco Aurelio con Roberto Saviano. Per capire dove si va, senza dubbio, si deve sapere da dove si viene”.
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Proviamo a tracciare una definzione di comunità?
“Ce ne sono tante. Per quanto riguarda la “Comunità militante”, che io tratto nello specifico, potremmo affermare che si tratta di un gruppo di persone che condivide una medesima aspirazione valoriale e uno stesso progetto politico, saldandosi in un legame cameratesco che si riferisce ad un terzo elemento: la comune immagine del mondo.
A questo, naturalmente, si uniscono il rispetto di gerarchie visibili, di stili di vita comuni, di codici condivisi e di pratiche organiche. Una scelta volontaria, che si manifesta nella precisa volontà di incarnare le Idee professate, nella declinazione operativa di un certo retaggio e nella scelta rivoluzionaria di porsi in divergenza rispetto ai dogmi di un tempo che ha eretto la massificazione, il livellamento e la spersonalizzazione a riferimenti assoluti.
Non è una contraddizione indicare Jünger come riferimento per percorsi comunitari se proprio il tedesco ha indicato nel Trattato del ribelle la via del Bosco?
“Jünger, nel suo “passaggio al bosco”, richiama una scelta di ribellione individuale. Tuttavia, il suo Ribelle non è uno sconfitto che si aliena dalla realtà per fuggire nella macchia a contemplare la natura. Egli “organizza la resistenza”, che non è quella dei rubagalline di italica memoria, ma quella degli uomini liberi che scelgono di combattere – anzitutto – attraverso il proprio esempio personale.
![Ernst Junger](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2019/05/maxresdefault-310x174.jpg)
Ma quei lupi, come già affermato in precedenza, aspirano a farsi branco per diventare “l’incubo dei potenti”: è la dialettica della Grande Guerra – combattuta “in interiore homine” – che si accompagna alla Piccola Guerra, dove si battaglia contro il nemico fisico e altro da noi. L’una, senza l’altra, resta sempre parziale: la prima, tuttavia, è la più difficile di tutte, perché prevede uno sforzo di elevazione spirituale che può essere compiuto soltanto attraverso il superamento di sé.
La Comunità, indubbiamente, contribuisce a fornire gli strumenti in tal senso: perché trasmette il bagaglio del sacrificio, dell’obbedienza e del dono. Perché è una scuola e una palestra di vita: ognuno vale per quello che è, senza scorciatoie e secondi fini. Perché educa al coraggio, alla lealtà e al senso dell’onore. Perché manifesta il terribile desiderio di una vita autentica, dove lo sguardo e la parola hanno ancora un peso.
E allora, seguendo questa prospettiva, la metafora di Jünger diventa immanente: il Bosco è qui e ora, nei meandri della nostra coscienza, nelle pieghe delle nostra società, nelle strade delle nostre città. Il Bosco è dappertutto”.
Nei territori come declina l’attività di una comunità politica?
“In ogni modo possibile. Dobbiamo tornare a concepire la Politica come un’attività totalizzante, capace di manifestarsi in tutto lo scibile umano: nell’arte e nel tempo libero, nella cultura e nella ricerca spirituale, nel lavoro e nel momento elettorale. Tutto è politica, niente è al di fuori della politica.
Ecco, allora, che una buona Comunità militante dovrebbe sapersi radicare nel sindacalismo e nella produzione musicale, nell’aggregazione studentesca e nella creazione di spazi ludici, nell’elaborazione di progetti culturali e nella Formazione spirituale, nell’attività istituzionale e nel soccorso sociale.
Nel libro, naturalmente, suggerisco dei metodi, dei ritmi e delle strategie, che possono essere adattate alle singole specificità dei luoghi e dei contesti: è determinante mettere in movimento queste realtà, organizzandole e connettendole, affinché non siano fuochi fatui o sterili cenacoli, ma possano agire e contaminare. Perché la politica – quella vera – non è mera amministrazione, ma una costante ed inesorabile opera di conquista”.
Dalla comunità militante all’editoria. Come avviene questa scelta di impegno?
“Avviene in senso naturale, in linea con quanto affermato finora: la buona battaglia – infatti – è sopratutto nella diffusione di un pensiero alternativo. Lèon Degrelle lo aveva compreso con largo anticipo: “Una rivoluzione non si fa a colpi di spacconate, e meno ancora a colpi di vacui proclami altisonanti. Qualsiasi rivoluzione che arricchisce è frutto d’una lunga preparazione intellettuale. Quello che verrà sarà, più che mai, un secolo delle élite e del coordinamento delle loro scoperte: saranno i migliori, i più capaci – e solo loro – a coinvolgere, a dirigere e a mutare la società”.
Una Comunità militante non deve fondarsi soltanto sulla progettualità elettorale: questa, per quanto necessaria, deve rappresentare uno strumento e non un fine. Il rischio è quello di mortificare la vitalità comunitaria con la sterilità dell’apparato partitico: di qui, evidentemente, l’importanza di esprimersi culturalmente, anche attraverso l’attività editoriale”.
Comunità e mondo digitale: un ossimoro o una sfida al fine utilizzare le tecnogie web per veicolare valori e stili di vita differenti?
“Una sfida, senza dubbio. Ma occorrono sagacia e distacco, perché il crinale è scivoloso: si rischia di diventare strumentali allo strumento, accodandosi al coro del “chiasso digitale”, che antepone il virtuale al reale e dilata il peggiore narcisismo.
Tuttavia, le piattaforme sono mezzi dei quali dobbiamo servirci con intelligenza strategica e bravura tecnica: imparare a conoscere il pubblico potenziale, a cavalcare il linguaggio, a veicolare messaggi vincenti a comunicare in senso profondo e non solo sensazionalistico.
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Le prossime campagne e/ iniziative?
“Ci sono oltre venti titoli in preparazione. Il lavoro è tanto e le attività librarie di “Passaggio al Bosco” procedono a passo spedito, collezionando risultati che vanno oltre le più rosee aspettative.
Resteremo fedeli alla nostra identità culturale e alla nostra linea editoriale, spaziando dalla saggistica all’attualità, dalle biografie ai pamphlet, dalla riscoperta dei vecchi capolavori alla narrativa non conforme: un’opera libera e controcorrente, che vuole offrire spiragli di riscatto oltre il fatalismo della rassegnazione”.