Nei primi Anni Settanta dietro lo slogan “Studenti e operai uniti nella lotta” prese campo l’idea dell’alleanza e del mutuo riconoscimento tra il giovane ceto intellettuale, di estrazione borghese, ed il mondo del lavoro operaio, nel segno di un comune radicalismo di classe. L’illusione durò poco, costretti tutti a fare i conti da una parte con il velleitarismo dei contestatori dall’altra con il realismo dei lavoratori, impegnati sul fronte della contrattazione e dei nuovi diritti piuttosto che dell’utopismo maoista. In realtà una saldatura tra studenti e mondo del lavoro si verificò sul fronte opposto, quello del radicalismo anticomunista d’impronta missina, certamente per ragioni ben diverse rispetto a quelle ipotizzate dai contestatori e dalle frange più estreme del mondo operaio. Ad unire studenti ed operai, nel nome di una ben salda visione nazionale, fu il martirologio politico che segnò il decennio Settanta, iniziato, a Genova, con il sacrificio di Ugo Venturini, un operaio edile di 32 anni, militante del Msi, colpito da una bottiglietta, lanciata, il 18 aprile 1970, nel corso di un comizio di Giorgio Almirante, da un gruppo di manifestanti dell’estrema sinistra, con l’intento di impedire il discorso del segretario del Msi. L’agonia di Venturini durò fino al 1° maggio e si concluse con la sua morte, proprio nel giorno della “Festa del lavoro”.
Tralasciamo i dettagli della storia, l’odio che molte forze politiche manifestarono in quell’occasione, i colpevoli mai trovati (malgrado ci fossero un film sugli scontri e numerose foto), lo strazio della famiglia e la difficile vita del figlioletto Walter. Ciò che rende ancora oggi drammatica la vicenda di Venturini, prima vittima degli Anni Piombo, è il clima di odio innescato da parte antifascista, in occasione della tradizionale manifestazione a ricordo della morte del militante missino. I quarantanove anni trascorsi da quei drammatici eventi per alcuni sembrano essere passati invano. “Giustiziato il fascista Venturini”: titolava all’epoca “Lotta Continua”. “I fascisti non debbono parlare”: urlano oggi i contestatori genovesi, scesi in piazza per l’immancabile contromanifestazione, inscenata per impedire il tradizionale “Presente !” organizzato sul luogo dove Venturini fu colpito, i giardini antistanti la Stazione Brignole, e dove, nel 2012, l’allora sindaco del Pd Marta Vincenzi autorizzò a dedicare un viale. Da anni, ai primi di maggio, sul luogo si sono incontrati quanti del sacrificio di Venturini continuano a coltivare la memoria. Nessuno aveva mai indetto contromanifestazioni, né sollevato obiezioni. Quest’anno no. Quanti hanno organizzato il contro presidio (verso un’iniziativa autorizzata dalla Questura), con in testa i gruppi antagonisti, l’Anpi e la Cgil, invece che della vittima, uccisa dall’odio comunista, hanno parlato addirittura di “sfilata nazista”. Il risultato un’ignobile gazzarra, con annesso schieramento dei blindati delle forze dell’ordine, fischi, slogan ed un piccolo tafferuglio, stroncato da una carica della polizia.
Lo stesso odio, la stessa perversa faziosità che hanno recentemente accomunato nel loro tragico destino (“Studenti e operai uniti nella lotta!”) l’operaio Ugo Venturini e lo studente milanese Sergio Ramelli, aggredito, sotto casa, il 13 marzo 1975 da un gruppo di militanti di Avanguardia Operaia, e morto più di un mese e mezzo dopo, il 27 aprile, per via dei traumi riportati. Gli stessi slogan a decine di anni di distanza. La stessa insensata nostalgia per la guerra civile 1943-45 e per quegli Anni di Piombo, che furono, nel decennio Settanta, segnati da un lungo filo di sangue.
Nei confronti di quelle vittime l’unica strada è il rispetto ed il dovere della verità e della memoria. Rispetto, verità e memoria che i nostalgici dell’antifascismo militante non intendono evidentemente riconoscere, nel nome di una visione manipolata della libertà e della democrazia. Gli stessi principi per cui mezzo secolo fa, al grido di “uccidere un fascista non è reato”, vennero stroncate tante vite. Ricordare le vittime di quegli anni non è solo un atto di rispetto verso tanti morti, ma un utile antidoto per impedire che certi drammatici e sanguinosi errori si compiano nuovamente.