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Il western all’italiana nasce con Sergio Leone (1929 – 1989) e il film Per un pugno di dollari, il film nacque per una scommessa tra il regista romano, il collega Enzo Barboni e il produttore Stelvio Massi dopo la visione del film La sfida del samurai di Akira Kurosawa nel 1961, da cui carpì le premesse per realizzare un western sottocosto di produzione italiana. Nessuno di loro immaginava che il film si sarebbe imposto per il suo successo in Italia e all’estero influenzando anche la futura produzione western negli USA. Si tratta di una nascita mistificata sia nominale, sia geografica per via della costruzione fisica del film con i paesaggi del western classico, i deserti, i villaggi, le praterie, i confini tra Messico e Stati Uniti ambientati nel Sud della Spagna, sia contenutistiche. Il pistolero senza passato dall’eloquio sonnolento interpretato da Clint Eastwood già protagonista della serie televisiva western Rawhide, che non credeva nel film in cui era protagonista e che invece lo rese un divo e che se ne tornò in America dopo le riprese del film e senza neanche averlo visto, non è un personaggio proprio originale, ma è ispirato al samurai solitario interpretato da Toshiro Mifune e anche la stessa storia di Leone è un plagio di La sfida del samurai che a sua volta era ispirato al racconto Piombo e sangue di Dashiell Hammett, e che a sua volta verrà riadattato in epoca contemporanea con Ancora vivo di Walter Hill in cui il western si mescola con il genere thriller e noir.
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I giapponesi perseguirono legalmente la produzione italiana del film ma invece di bloccarne la produzione chiesero la metà degli introiti del film di Leone avendo capito le potenzialità del film. E sarà proprio il film di Leone che diverrà famoso in tutto il mondo, anche in Sol Levante. E questo perché “Quando i fatti (il film di Kurosawa) si trasformano in leggenda (il film di Leone), diventano famose le leggende”.
Leone utilizzò il modello nipponico ponendoci una sua poetica personale, una favola per adulti non più ispirata al “mito americano” e all’immaginario epico legato al territorio e ammantato di romanticismo, Leone si rifà ai canoni europei attingendo i classici greci come i poemi omerici, la tragedia shakespeariana e la commedia dell’arte in particolare con Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni che ispirò Sergio Leone nella realizzazione di Per un pugno di dollari. Si potrebbe pensare che a uccidere il western classico non sia stata sparata da Tom Doniphon/John Wayne ma da Sergio Leone che considerò come suo modello e film preferito L’uomo che uccise Liberty Valance.
LA TRILOGIA DEL DEL DOLLARO
Per un pugno di dollari apre la Trilogia del Dollaro leoniana che detterà le nuove coordinate del western anche in America, introducendo degli stilemi nuovi improntati al realismo dei personaggi e delle situazioni, senza curarsi di un corrispettivo “vero storico”. Il western americano nasceva dall’esigenza di fornire un passato “mitico” al popolo americano che a differenza dell’Europa era orfano di un vero passato storico mentre quello di Leone nasceva dall’idea personale del regista. I paesaggi sono desertici e aridi, i villaggi sono assolati e claustrofobici, gli uomini sono rozzi, violenti, sporchi, barbuti, sudati, privi di nobiltà d’animo e di motivazioni, wanderer o giustizieri, le pallottole quando impattano mostrano il sangue in bella vista in un realismo nudo e crudo. E’ un modo nuovo di realizzare il western che metteva in sordina l’elemento più importante del western classico favorendo il montaggio fatto di piani sequenza lunghissimi in ambienti ristretti alternati a veloci primi piani e dettagli, vi sono anche panoramiche esasperate e repentini flash, silenzi e scoppi di musica.
Per un pugno di dollari fu scritto da Leone, Duccio Tessari e Fernando Di Leo e introdusse l’antierore cinico e disincantato, senza passato né futuro, impersonato da Clint Eastwood che soddisfa i propri interessi in un villaggio non identificato in cui due famiglie i Baxter e i Rojo fanno da padroni per il predominio del traffico di armi e di alcool una contro l’altra armata. A mettere fine al loro di potere sarà il pistolero senza nome che porterà alla distruzione prima la famiglia Baxter per mano dei Rojo e poi al confronto con i Rojo, il cui leader Ramòn, interpretato da Gian Maria Volonté che ci regala un’interpretazione indimenticabile, imparerà che non sempre un uomo col fucile può sopravvivere contro un uomo armato di pistola.
Il secondo capitolo è Per qualche dollaro in più del 1965 alla cui sceneggiatura parteciparono Sergio Donati e Luciano Vincenzoni, fu inevitabile dopo il successo clamoroso del primo film che venne smascherata la nazionalità reale della pellicola e i nomi nei credits sono italiani riconfermati da Sergio Leone sia nel cast tecnico che artistico, con Eastwood nella parte del bounty killer il Monco deciso a intascare la taglia sulla testa del bandito el Indio sempre interpretato da un nevrotico e drogato Gian Maria Volonté viene costretto a confrontarsi con il colonnello Mortimer, un Lee Van Cleef, redivivo dopo l’oblio in patria, destinato a una nuova e folgorante carriera negli spaghetti western a venire in cerca di vendetta su chi gli uccise la sorella.
In questa avventura Leone introduce anche una certa dose di umorismo e lascia preludere a toni meno grevi nel successivo Il buono, il brutto, il cattivo del 1966, scritto dal trio Leone, Donati e Vincenzoni a cui si aggiunsero Age e Scarpelli, un film fiume memorabile di tre ore di lunghezza costruite su altrettanti personaggi cardine: l’avventuriero Joe detto il Biondo, interpretato da Clint Eastwood il messicano Tuco, un predone messicano bilioso e attaccabrighe interpretato da un’impagabile Eli Wallach, che ruba la scena a tutti, scoprendo una vena comica che saprà far fruttare in futuro e Lee Van Cleef nella parte di Sentenza, un tagliagole implacabile.
I tre protagonisti sono alla ricerca di un tesoro di 200.000 dollari in oro, nascosto nel cimitero di Sad Hill dentro una tomba senza nome, che raggiungeranno solo dopo mille peripezie in territori dilaniati dalla guerra civile. Nel finale il duello interminabile tra i tre personaggi sugella un western epico e picaresco che avrà un gran successo di pubblico, il tutto permeato dalla maestosità della colonna sonora grandiosa di Sergio Leone. Questo film consacrerà Sergio Leone che nel film successivo calerà le carte americane per approcciarsi al mito western americano.
SERGIO LEONE TRA FAVOLA E RIVOLUZIONE
C’era una volta il West del 1969, scritto sempre da Leone e Donati e con la collaborazione di Dario Argento e Bernardo Bertolucci è un affresco magistrale di lunghezza spropositata con sequenze esasperanti in durata in cui mette in scena i personaggi derivati dal western classico americano che sono da considerare dei simboli. Vi è un pistolero rude e taciturno che vuole vendicarsi, un killer spietato che non si fa scrupolo di uccidere bambini al soldo di un magnate della ferrovia, un bandito dall’animo romantico, tutti impegnati in un balletto di morte attorno all’unico vero personaggio della pellicola, una ex prostituta indomita che erediterà il sogno del marito ucciso, sarà lei la spugna che cancellerà gli ultimi titani del Vecchio West, che scompariranno con l’arrivo della civiltà che nel film di Leone è rappresentata dall’arrivo del treno nella stazione di Sweetwater liberata sia dagli “eroi” che dai “banditi” che sono confinati nella sfera mitica del ricordo o per riprendere il titolo del film nella narrazione di una favola.
Il film di Leone oltre a essere impreziosito dalle sequenze di fordiana memoria della Monument Valley segna il trapasso dei tempi, la fine del mito della Frontiera e l’inizio della moderna società americana, affidando il futuro della nuova società a una donna, ma la nuova società per potersi sviluppare secondo nuove valenze deve fare piazza pulita del proprio passato leggendario.
Charles Bronson nel ruolo del meticcio Armonica salda il conto con il sicario vestito di nero Frank, interpretato da Henry Fonda a suo agio anche nella parte del cattivo, che gli aveva assassinato il fratello. Frank è il braccio destro ambizioso di uno storpio industriale delle ferrovie di nome Morton che vuol mettere le mani sul podere della vedova Jill Mc Bain, interpretata da Claudia Cardinale che è poi la vera e unica protagonista del film. La proprietà si trova sulla sorgiva d’acqua necessaria al passaggio del treno, la colpa della strage della famiglia Mc Bain viene fatta ricadere da Morton sul bandito Cheyenne, che è sicuramente un poco di buon ma non un “assassino di bambini”.
Eliminati Frank e Morton, il compito di Armonica è finito e se ne va via portandosi dietro Cheyenne ormai in fin di vita, rimane solo Jill che rappresenta il futuro attorno al quale cresce la città e si sviluppa il Sogno Americano. La dilatazione del ritmo di narrazione, la semplicità dell’intreccio, la laconicità delle battute dei personaggi e la loro malinconia prima della dipartita finale celebrano la morte del West davanti al progresso con la nascita di tempi, si fa per dire più civili, la fine di un’epoca più sognata che reale, l’avvento di una nuova era in cui si svilupperà un mondo in cui non vi sarà posto per uomini come Armonica, Frank e Cheyenne.
Nel 1971, Leone si cimenta nel sottogenere messicano rivoluzionario del western con Giù la testa con la collaborazione di Donati e Vincenzoni dando inizio ad una nuova trilogia dedicata all’America iniziata con C’era una volta il West e conclusasi con C’era una volta in America del 1984, di questo sottogenere se ne erano occupati già Sergio Corbucci e Sergio Sollima, Leone farà un film molto personale e politico.
I cardini di questo film sono molto ben delineati, l’amicizia, la vanità e il concetto di rivoluzione riassunto dall’assioma di Mao Tse Tung che apre il film: “La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza”.
In realtà non cambia nulla e travolge ogni cosa in un efferato meccanismo di morte in cui anche il legame affettivo tra i due protagonisti, un péon popolano e un rivoluzionario disilluso viene reciso lasciando l’altro solo e spaesato.
Nel film abbiamo Rod Steiger che da una grande prova di se nel ruolo di Juan Miranda, un bandito estroso con prole al seguito il cui unico sogno è di rapinare la banca di Mesa Verde durante la rivoluzione messicana di Villa e Zapata, diventerà un eroe del popolo contro la sua volontà e dopo aver perso tutti i suoi figli dopo una rappresaglia, e James Coburn nella parte di John “Sean” Mallory nella parte di un dinamitardo dell’IRA in fuga dai fantasmi del passato che lo hanno segnato a suo tempo in Europa morendo in un finale pirotecnico cosciente dell’inutilità della morte e della distruzione.
Il film di Leone è il figlio del periodo storico che all’epoca il mondo viveva, un periodo fatto di rivoluzioni, contrasti sociali, utopie e ideali. Sergio Leone mette in scena un film politico in cui mostra due facce della stessa medaglia della rivoluzione, una più appassionata e convinta e l’altra disincantata, John e Juan hanno lo stesso nome ma in lingue diverse sono i protagonisti di una riflessione amara e tagliente della nostra civiltà divisa tra i conservatori che vogliono mantenere lo status quo e la convinzione illusoria di poter cambiare con ardore ed eroismo le fondamenta della società. Leone non risparmia nessuno mettendo in luce i due lati della rivoluzione con i suoi pregi e i suoi difetti criticando l’elitarismo e il razzismo nelle sequenze iniziali quando Juan viene deriso e disprezzato dai passeggeri di una diligenza.
Sergio Leone arriva a una maturità narrativa che era iniziata con C’era una volta il West e con cui il regista inizia un cammino di attualità e realismo attraverso un viaggio in circa 40 anni di storia americana che concluderà con C’era una volta in America. Il film di Leone non è però un pamphlet storico politico, Leone non rinuncia allo stile narrativo fatto di duelli, dinamite e in cui vi sono temi come l’amicizia, il passato che presenta il conto, impreziosito da dialoghi mordaci e ironici.
Se con C’era una volta il West si celebra la fine del West, con Giù la testa Sergio Leone chiude l’epoca del Sessantotto. La maggior parte dei critici considera questo film di Leone un film a sé, in realtà in questo film il regista romano dà il meglio di sè sprigionando tutta la sua indole artistica descrivendo il classismo e la sopraffazione della società messicana, la ribellione del popolo messicano all’arroganza del governatore. Il film si dipana tra gli inganni, i tradimenti e le torture, vi sono meno slanci epici rispetto ai film precedenti ma i tasselli sono ben assemblati in modo convincente offrendo al pubblico 151 minuti di spettacolo. Tutti noi nella vita siamo tutti un po’ Juan e John, tutti noi nella vita siamo stati costretti almeno una volta a combattere guerre non nostre, tutti noi nella vita siamo costretti a dividerci in schieramenti inesistenti costringendo alle volte anche a rompere delle amicizie per restare coerenti a un ideale.
Abbiamo detto che con Giù la testa si chiude l’epoca del sessantotto, questa chiusura è rappresentata dalla scena finale dopo l’esplosione in cui muore John Mallory, e Juan Miranda si pone la domanda “E adesso io?”, quella domanda ce la poniamo anche noi del pubblico perché rappresentano il disagio esistenziale di un’intera generazione.
Le performance di Rod Steiger e James Coburn sono intense e convincenti, rendendo con i loro sguardi e movenze le sfaccettature dei loro personaggi e i loro cambiamenti umani e ideologici. La colonna sonora è di Ennio Morricone che accompagna i momenti più importanti del film, la fotografia è di Giuseppe Ruzzolini con cui dipinge il contesto storico e sociale in cui si muovono i protagonisti.
Concludo con l’invito a vedere questo capolavoro di Sergio Leone perché in un epoca di degrado, differenze sociali, di terrorismo, di antipolitica, di reality, di isole e di tronisti, un’epoca fatta di brunch e di apericene è un film ancora attuale in cui viene rappresentata l’illusorietà della rivoluzione che alla fine ricade sui deboli che cercano cambiamenti politici e sociali alle volte con la violenza e altre volte con il voto di protesta a movimenti politici che si esprimono solo per slogan stampati sulle felpe o ripetuti sul web.
Un’opera che la critica considerò minore ma che invece dimostra tutta la sensibilità e la bravura di Sergio Leone.
Sergio Leone ci ha lasciato il 30 aprile 1989, dopo che da regista aveva firmato ben otto pellicole diventando così uno dei più grandi cineasti del 1900, i cui film da Per un pugno di dollari, passando per Giù la testa fino a C’era una volta in America costituiscono un patrimonio sia del cinema italiano che dei cult movie per intere generazioni che come la mia conoscono a memoria interi dialoghi delle sue pellicole, su Facebook la sua pagina ha all’attivo più di 50mila appassionati da tutto il mondo. Le grandi istituzioni culturali e le università lo studiano. Nella sua lunga carriera non venne mai premiato con l’Oscar, l’unico a ricordarlo fu Clint Eastwood nel 1992 con il film che gli fruttò l’Oscar Gli Spietati inserì nei titoli di coda la dedica A Sergio. La più grande vocazione di Sergio Leone era il cinema che secondo lui doveva essere prima di ogni cosa spettacolo perché alla fine è lo spettacolo che il pubblico vuole.
Céline è presente in molti film di Leone come in Il buono, il brutto, il cattivo e in Giù la testa come il disincanto nichilistico di fronte alla guerra e il rapporto tra vincitori e vinti. La passione per il capolavoro di Céline unirà Leone a un altro grande regista esponente della ribellione e dell’anticonformismo Sam Peckinpah, il cineasta californiano mezzo irlandese e mezzo pellerossa viene citato nel film Il mio nome è nessuno, un film del 1973 diretto da Tonino Valeri su un soggetto di Sergio Leone che ne fu produttore. Il nome del regista viene fatto da Terence Hill nella scena del cimitero indiano quando legge il nome su una lapide, è una scena molto triste in cui i due protagonisti Henry Fonda e Terence Hill celebrano il tramonto dell’epopea del West. Molte cose accomunavano il cineasta romano con il cineasta americano tra cui il romanzo del “cattivo maestro” Céline in cui si evidenziavano le contraddizioni della vita del mondo moderno.
Cominciando anche da un’idea distorta dell’America che l’indomani della liberazione ci venne propinata da Hollywood. Alla fine tra l’American Way of Life di Hollywood e il totalitarismo sovietico non vi era alcuna differenza, Per un pugno di dollari nasceva dalla necessità di rappresentare il ghigno crudele dell’America .
Diego Gabutti nel suo libro intervista C’era una volta in America. Un’avventura al saloon con Sergio Leone Leone definisce i suoi film della “trilogia del dollaro” un film sull’America e la sua giovinezza nel cinema. Sergio Leone era figlio di Roberto Roberti e di Bice Waleran attrice di origine austriaca. Iniziò a lavorare a 18 anni a Cinecittà rivelando una stupefacente abilità durante la lavorazione dei Colossal degli anni Cinquanta nelle scene di battaglia e nelle sequenze di massa. Tra le sue collaborazioni Quo Vadis? di Mervyn Le Roy, Elena di Troia di Robert Wise e Ben Hur di William Wyler di cui fu l’artefice della realizzazione della corsa delle bighe, Gli ultimi giorni di Pompei di Mario Bonnard in cui Leone da assistente alla regia vi subentrò come regista per sostituire Bonnard ammalato con cui diede prova di sapiente artigianato dati i mezzi illimitati facendo concorrenza alle produzioni statunitensi. La sua prima regia ufficiale fu con Il Colosso di Rodi un film di genere mitologico avventuroso .
A seguito del film Il Colosso di Rodi vi fu la svolta western, nel 1961 aveva visto il film di Kurosawa La sfida dei samurai e pensò di fare una trasposizione western del film nipponico. Poco tempo prima il regista americano John Sturges si era ispirato al capolavoro di Kurosawa I sette samurai per realizzare I magnifici sette e anche Kurosawa si ispirò a Pirandello per realizzare il film Rashomon. Quella fu l’idea del suo primo western, la sceneggiatura la realizzò assieme a Duccio Tessari ispirandosi all’Iliade di Omero. Per scegliere gli attori decise di chiamare i caratteristi trasformandoli nei protagonisti per i suoi film, la scelta di Clint Eastwood per il ruolo dell’uomo senza nome fu casuale perché avvenne sfogliando l’annuario degli attori quando vide una figura dinoccolata e sottile dai lineamenti scavati, sarebbe stata sufficiente una ruga attorno agli occhi e il cigarillo tra le labbra, la barba incolta e il personaggio era creato.
Un ringraziamento a Michele De Feudis per aver creduto in questo progetto e per aver pubblicato i miei lavori. Dirò una eresia ma Ford, Peckinpah e Leone stanno al cinema come Dante, Petrarca e Boccaccio stanno alla poesia
“I giapponesi perseguirono legalmente la produzione italiana del film ma invece di bloccarne la produzione chiesero la metà degli introiti”. Non mi pare esattamente un approccio da samurai, anti-utilitaristico, dove si antepone ciò che è giusto a ciò che conviene. (Poi per carità, sempre meglio per noi, che almeno abbiamo potuto vedere la pellicola).
Paleolibertario i Samurai alla fine erano pur sempre mercenari che erano al servizio del proprio signore, rispetto ai mercenari nostrani del Rinascimento avevano un codice d’onore che da noi non c’era. Ma qui alla fin fine parliamo di un film.
Sì, sì, il mio commento era “ortodosso” e semi-scherzoso… Grazie, Giovanni, per l’ottimo articolo. Sono argomenti sempre interessanti.
Era un omaggio dovuto al povero Sergio Leone tacciato dalla sinistra di un presunto fascismo (quando lui in realtà non lo era) e senza il quale registi come Quentin Tarantino e Takashi Mike non avrebbero mai creato nulla.
Molto bello questo articolo. Mi ha fatto riflettere il commento su Giù la testa. Mi rivedrò i film di Sergio Leone con un occhio più aperto. Grazie Giovanni
‘Alla fine tra l’American Way of Life di Hollywood e il totalitarismo sovietico non vi era alcuna differenza’…questa è troppo grossa anche per il Primo di Maggio…
A me personalmente il western-spaghetti non piace molto. Al di là dei condimenti colti pare una parodia del western americano, retorico, il mito della frontiera ecc., e non molto di più…