La prima notte di quiete, film del 1972 diretto da Valerio Zurlini, può essere considerato senza dubbio un film di culto, amena definizione riservata alla nicchia, che ci permette di ripescare a mare, sulla battigia invernale che restituisce preziosità frammiste a detriti, un piccolo classico assai sottovalutato. Difatti c’è un’ingiustificata ombra minoritaire che aleggia attorno alla pellicola, probabilmente derivata della vena nichilista e decadente, poco in linea col pedagogico florilegio di buoni esempi, ovine sudditanze di genere e moralistiche prediche del cinema italiano. La carriera del regista bolognese, caratterizzata da quell’inquieto complicarsi la vita tipico degli spiriti liberi, risulta d’altronde emblematica del serrato confronto, sovente fatto d’attriti con critica e produttori, che contraddistinse il far arte nel dopoguerra: considerato inizialmente un engagé dal radioso futuro progressista, grazie anche a episodi di successo quali Le ragazze di San Frediano (1954), Estate violenta (1959), La ragazza con la valigia (1961), Cronaca familiare (1962, Leone d’oro a Venezia, ex aequo con L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovski), egli finirà coll’inimicarsi pubblico generalista e zelanti recensori ideologizzati, proprio per la coraggiosa caparbietà – quel far di testa sua, talvolta indugiando nel fatalismo di benestanti personaggi irrisolti, a discapito del buon santino proletario – che seppe opporre all’omologazione espressiva, ai dettami codificati dell’eterno neorealismo straccione e poi ai dogmi della Contestazione, agli impiegatizi doveri della militanza politica. Sta di fatto che Zurlini si vide rubare importanti sceneggiature, assaporò gli effetti dell’ostracismo, le accuse di “bozzettismo” e disimpegno, equivalenti a scomuniche; incomprensioni alle quali rispose sempre con un’alzata di spalle. Meno aristocratico di Luchino Visconti, meno esistenzialista di Michelangelo Antonioni, ma certamente più talentuoso di Bellocchio, Petri e Maselli, Valerio Zurlini cavò fuori dalla pellicola qualcosa di “francese”, pur senza copiare i francesi, tantomeno Bertolucci. Anzi, La prima notte di quiete può essere considerato un film snobisticamente provinciale, vissuto da dentro – una Rimini plumbea, assai distante dalla cartolina balneare, addirittura più metafisica e nebbiosa di Ferrara – ma pensato da fuori, con quella freddezza nordica (bergmaniana) in grado di redimere la cittadina turistica dalla maschera bonaria dei luoghi comuni.
Rimini dunque, trasfigurata in sordido enigma urbano, in giogo d’abitudini locali e stanchi divertimenti: giorni sfatti di routine e notti stroboscopiche con donnine, poker e whisky; delle ebbre goliardie dei vitelloni, o delle loro avide caricature sopravvissute a Fellini, di brutti palazzi che crescono in piani, senza mare, raramente visibile e comunque limaccioso, invernale dettaglio opprimente, stereotipo relegato ad atmosfera tra il cemento dei moli; modernità famelica che sconfina nel kitsch di certi arredi post boom economico, la piscina coi delfini in cattività, e d’altro canto ville signorili abbandonate, gli spenti bar dell’entroterra, vecchi banchi di scuola in legno. Del passato non resta che quell’effimero provar vergogna. Rimini elusiva ma spietata, dove il neo-supplente Daniele Dominici, uno straordinario quanto stropicciato Alain Delon, si muove da estraneo, da straniero in primo luogo a se stesso, con cappotto di cammello, maglione verde sgualcito, Gauloises senza filtro sempre accesa e una scalcinata Citroen che va avanti per miracolo. Zurlini, anche sceneggiatore assieme a Enrico Medioli, costruisce qui un personaggio complesso, disilluso, ambiguo antieroe non privo di fascino, un tale che sarebbe potuto uscir fuori dalla penna di Drieu La Rochelle. Un Gilles, tanto per intendersi. Dominici, il quale porta il fardello di una lunga relazione sentimentale ormai consunta e di una genealogia nobile che nasconde per introversione, appare elegantemente disinteressato alle vicende scolastiche come a quelle mondane: da un lato snobba le pressioni del preside – vecchio autoritario tutto ordine e disciplina –, facendo fumare i ragazzi in classe e ostentando un certo lassismo; dall’altro evita di presentarsi come il prof. amico, rifiuta di firmare petizioni politiche, totalmente indifferente alle rivendicazioni studentesche. Negligente alle parole d’ordine del tempo piccolo, rappresenta in qualche modo quel che resta del tipo umano aristocratico. Di notte invece s’attarda in compagnia di guasconi, col medesimo atteggiamento di sufficienza, si muove nella trama come nulla lo riguardasse da vicino. Eccetto lei. A far da cardine tra giorno e notte, tra scuola e bische, tra apatia e illusione di vita, tra tedio e gelosia, c’è Vanina Abati (Sonia Petrovna), misteriosa bellezza seduta nei banchi della classe dove insegna. Legata al ricco quanto rozzo Gerardo, Vanina, speculare femminile non meno complesso, nasconde dietro quel broncio menefreghista, dietro quel glaciale candore epidermico, un covo di serpi. Un tormento censurato, segreto sconforto senza rimedio che solo il professore ignora. O finge d’ignorare per un amore impossibile.
Arcani di provincia, sordide meccaniche come in certo cinema impolverato di Pupi Avati, ma in Zurlini senza consolatori passatismi; forti similitudini d’altronde col più recente Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino: medesimo contesto estraneo al solitario protagonista, le cose un tempo preziose perse al gioco, medesima infatuazione dell’uomo in crisi per una giovinetta, stesso tragico epilogo. Ma La prima notte di quiete è soprattutto un raffinato mosaico estetico/esistenziale, un labirintico dramma in grado di tenere assieme La Madonna del parto, affresco di Piero della Francesca che qui ha un ruolo decisivo, miracolo extra muros, con la voce di Ornella Vanoni (presente anche nel menzionato film di Sorrentino: evidentemente c’è qualcosa di più dell’ispirazione) e a un poster di Luigi Tenco affisso nel salotto sbagliato; l’anello di famiglia perso a carte senza batter ciglio, certi dettagli come la scelta de Le Figaro in edicola, un racconto di Stendhal (metalinguistico riferimento a Vanina, volumetto che si fa medium tra i due) con la citazione di Goethe che dà titolo al film. L’umiliazione dello stile, della condotta naturalmente elegante di Dominici/Delon e dell’amore fragile che cerca di proteggere, subdolamente perpetrata da un clan di volgari maschere, racconta di una solitudine fatale, e in fondo di una violenza periferica, in grado di toccare abissi di rara profondità. Film ad incastri ben mimetizzati, dove ogni particolare si collega all’altro e al tutto della narrazione. Film d’inganni pop, di superficiali mascheramenti anni ’70, che tuttavia trattiene un bilioso umore, atmosfera angosciante sempre intelligentemente dissimulata. Basti riandare alla scena dei delfini, in quella pozza di cloro circondata da anonimi palazzotti: “Non c’è che la mancanza di libertà a darti certe ventate di allegria”.
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Bellissimo commento ad un magnifico film!
Qualche tempo fa grazie a questa rubrica ho recuperato il sottovalutatissimo sceneggiato RAI “Notti e nebbie”, che mi è piaciuto veramente molto soprattutto per l’atmosfera decadente e per il magnifico spessore del commissario Spada interpretato da Umberto Orsini… Adesso andrò a recuperare anche questo film di cui spesso avevo sentito parlare ma che non ho mai avuto occasione di vedere, come sempre ottimo Donato nel toccare certi tasti e nella capacità di rendere perfettamente certe atmosfere…
Anch’io devo rivederlo.
La recensione è stupenda! Ho sempre ritenuto “La prima notte di quiete” e “La ragazza con la valigia” due veri capolavori di Zurlini.Tra l’altro Delon e la Cardinale i due separati protagonisti ,insieme catturati da Visconti nel “Il Gattopardo” saranno superlativi.
Film un po’ lento e forse di tono eccessivamente “esistenzialista”. Il comandante Dominici, al quale si accenna come padre del personaggio di Alain Delon, credo sia il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna, eroe della Folgore ad El Alamein, ucciso da un gruppo di soldati che l’8 settembre non accettarono la resa e vollero continuare a combattere a fianco dell’alleato tedesco.
Dalla moglie Paola ebbe una figlia, Antonella, poi adottata dal secondo marito della madre, Enrico Piaggio, e conosciuta come Antonella Bechi Piaggio. Dal primo matrimonio, con Umberto Agnelli, Antonella ebbe un figlio, Giovanni Alberto Agnelli, carabiniere paracadutista nel Tuscania, e scelto dallo zio Gianni per mantenere il comando della Fiat in famiglia. Scomparso per un tumore allo stomaco, a 33 anni nel 1997, mentre si accingeva ad assumere la direzione del gruppo. Il secondo marito di Antonella Bechi fu Uberto Visconti di Modrone, della famiglia di un altro eroe di El Alamein, caduto nella seconda battaglia, nel 1942, Medaglia d’Argento al V.M, fratello del regista Luchino…
Anche le “Ragazze di San Frediano”, tratto dal romanzo di Pratolini (penna elegante e senza fronzoli, neorealista “rosa” e, ahilui, marxista), merita: così leggero e delicato. “Estate violenta” è invece un ritratto della borghesia panciafichista, per così dire, alla Ciano, sul finire del fascismo, travolta dalla fine della dittatura mentre i loro rampolli consumano i loro stucchevoli amori estivi. Mi colpì soprattutto la scena dell’assalto al Fascio e un mastodontico capoccione del duce vilipeso mentre rotolava per strada.
A questo film, vagamente omoerotico (o forse è solo una mia impressione), devo la conoscenza del librino “Vanina Vanini” di Stendhal. Complimenti!
Di “Estate Violenta” ricordo soprattutto la bellissima Jacqueline Sassard, poi moglie di Gianni Lancia… La borghesia ipocrtita, corrotta e viziosa di provincia è un topos classico ed alquanto abusato del cinema sinistrorso, arriva anche al Commissario Montalbano in dosi industriali…
Molto bella la Sassard, mi chiedo se una ragazza così possa piacere ai giovani d’oggi, abituati come sono a tutt’altri canoni estetici.
La borghesia era il capro espiatorio degli scrittori e dei registi cosiddetti “impegnati”, sempre fedeli alla lezione di Lukács. Montalbano non lo seguo – sarò l’unico in tutta la penisola –, ma per quel poco che ho visto la borghesia rappresentata mi è sembrata piuttosto anacronistica…C’è ancora quell’atmosfera da ‘vecchie zie’ longanesiane. Quella borghesia dalle buone vecchie maniere, che conserva un non so che di romantico, nonostante la sua ipocrisia di fondo.
Più viene attaccato, più spunta fuori il ‘borghese’ che è in me… Come diceva, credo Barrès, “rivestiamoci dei nostri pregiudizi: ci tengono caldo”…
Luca. Ma quella è una sorta di borghesia immaginaria di una Sicilia strafinita… Ciò che vi è rimasto è comunque peggio…
Credo che un tipo alla Sassard piaccia sempre, culattoni esclusi…
E’un film dell’anima: sono rappresentati tutti i sentimenti più nobili…l’amore, l’amicizia, la pietà…è un vero cult movie. Condivido in toto l’articolo e gli apprezzamenti alla pellicola ed al regista, non adeguatamente valorizzato nella sua opera.