Con Zingaretti, la sinistra torna alle parole d’ordine del Novecento. E non è detto che sia, per forza, un male. Il rito delle primarie s’è concluso con la vittoria del governatore del Lazio che ha dato (molti) punti ai suoi avversari, primo fra tutti l’ex reggente dem Martina. Un dato è certo: quelle di ieri sono state le primarie meno frequentate di sempre: 1,7 milioni di elettori. Ma c’è pure da sottolineare come, in tempi di clic e twit, portare tanta gente ai gazebo a votare per le sorti di un partito che capitombola negli indici di gradimento politici rimane pur sempre un fatto che testimonia, quantomeno, che una fiammella di vitalità, a sinistra, è pur rimasta.
Il profilo
Nicola Zingaretti, 54 anni a ottobre, fratello del più famoso (finora) Luca – interprete sul piccolo schermo del commissario Montalbano ideato e raccontato dalla penna di Andrea Camilleri – ha vissuto tutta la sua vita politica seguendo le trasformazioni del maggior partito della sinistra italiana. Dal Pci fino al Pd di cui è stato eletto, ieri, segretario. È stato dirigente politico nazionale ed europeo delle organizzazioni della sinistra, già eurodeputato e presidente della Provincia di Roma ha tentato di candidarsi a sindaco della capitale nel 2012, non riuscendoci. È dal 2013 presidente della Regione Lazio, dopo aver battuto prima Storace e poi Stefano Parisi. Ha dichiarato che, se avesse vinto le Primarie, non si sarebbe dimesso dalla carica istituzionale.
Le alleanze
Con Zingaretti ha vinto quello che fino a qualche anno fa si sarebbe chiamato l’apparato. Traducendo l’espressione alla politica liquida della seconda decade del terzo millennio, a vincere è stata la componente di sinistra-sinistra del Partito democratico, quella che ha continuato a restare all’interno del contenitore sopportando, malissimo, la parentesi Renzi. Uno su tutti, Romano Prodi. A cui vanno aggiunti l’ex sindaco di Milano Pisapia, l’ex ministro Franceschini e l’ex premier Gentiloni. Poi la nomenklatura legata a Orlando e Cuperlo e ai territori. Le parole d’ordine sono quelle novecentesche: militanza, territorio e basso profilo dopo tanta sovraesposizione renziana. Ma soffre, come molti post-comunisti, della sindrome della modernità, del dover dimostrare – a tutti i costi – di non essere un vecchio “compagno” brontolone. E perciò ha dedicato la vittoria a Greta Thurnberg, la 15enne figlia della cantante svedese che protesta per l’ambiente (tirando la volata ai libri della mamma e a una startup, come ha dimostrato una recente inchiesta giornalistica scandinava) e si precipiterà, intanto, a Torino a sostenere la fattibilità e l’ineluttabilità della Tav.
Gli scenari.
Renzi ha già detto che non farà fronde. Ma nulla è così scontato, soprattutto se detto da chi rassicurò Letta col celeberrimo “stai sereno”. Di sicuro non l’avrà presa bene l’ex ministro Calenda che già da settimane cannoneggia sui social. La parte di centro, che aveva trovato una sua collocazione sul fronte europeista macroniano, tenterà di far sentire – con forza – la sua voce. C’è da scongiurare una scissione che, stavolta, potrebbe davvero far tracollare definitivamente il Partito democratico. Schiacciata a sinistra, come hanno dimostrato negli anni gli esperimenti politici da Sinistra Arcobaleno fino a Liberi e Uguali, la vocazione maggioritaria e quella governista deperiscono. Sfibrata al centro, invece, si risolve in astruse alambiccherie da alchimisti parlamentari. La sfida delle Europee, a maggio, sarà dunque decisiva. Se scissione sarà, Zingaretti non si preoccupa: le future due creature, comunque, si candiderebbero nella stessa coalizione. Insomma, come è accaduto per il defunto Pdl.