Non piace a tutti, come è giusto. Ma anche gli snob che hanno storto il naso al successo mondiale delle Braci e compatiscono le proverbiali casalinghe di Voghera che arrancano sotto il mezzo chilo cult della Donna giusta, devono riconoscere che Sándor Márai (anzi, Márai Sándor, per rispettare, oltre agli accenti, l’ordine protocollare della lingua ungherese) è il caso letterario di questi anni. Non capitava in Italia dalla scoperta di Guido Morselli all’ombra dello stesso editore, il rabdomante Adelphi, che uno scrittore di tale livello uscisse dai cassetti in perfette condizioni postume, con dieci o venti titoli da mandare sul mercato a intervalli astutamente pianificati. E con gli autobiografici Confessioni di un borghese e Terra! Terra!, Márai si è rivelato non soltanto poeta delle intermittenze del cuore, ma sismografo della catastrofe novecentesca, guadagnandosi un posto di prima fila nella psico-storiografia della Mitteleuropa, accanto ad altri grandi ungheresi dell’esilio come Arthur Koestler e François (Ferenc) Fejtö1.
Il caso Márai è pressoché unico per un altro motivo. Per una beffa del destino, la sua esistenza appare perfettamente divisa in due tempi di durata uguale ma di significato opposto. Il primo periodo è quello del successo in patria, dei viaggi alla conquista del mondo, di una vita affettiva, sociale, spirituale piena e intensamente vissuta. Il secondo, a partire dalla seconda guerra mondiale, è caratterizzato dalla solitudine crescente, dalla fuga, dalla povertà, infine dal nulla. Al centro vi è sempre lui, come torre ferma che non crolla, il grande letterato di stampo manniano che registra impassibile la fine della civiltà borghese, pur consapevole che quella fine comporterà la sua: «Tutto ciò mi lascia indifferente. L’importante è non scendere a patti con un mondo che ho conosciuto ed estromesso dalla mia vita»2. Un atteggiamento di sdegnosa fierezza, perfettamente colto nella statua che gli è stata dedicata ora dalla sua città natale, opera dallo scultore (slovacco) Márian Gladis.
Era nato nel fatidico 1900, l’11 aprile, in una famiglia di magistrati e notabili di Kassa, in tedesco Kaschau, in slovacco Kosice, città di tradizioni mitteleuropee dell’Alta Ungheria che dopo la grande guerra venne annessa dalla neocostituita Cecoslovacchia. Era stata fino ad allora una marca di relativa armonia all’interno della “grande” Ungheria, compatta verso l’esterno ma divisa all’interno da invalicabili fratture di classe3. Questo clima più aperto si ritrova nelle due lapidi, in ungherese e in slovacco, di fronte alla sua casa natale, in cui Márai viene definito (per tagliare la testa al toro…) «scrittore magiaro». Un clima culturale e umano che spiega la cifra alla quale sarebbe rimasto fedele tutta la vita, il suo definirsi “borghese” con gesto di sfida, anche quando il termine sarebbe diventato apparso anacronistico alla nuova intellighenzia europea emersa dalle trincee: «Senza timore di esagerare, posso dire che per la borghesia di fine secolo dalle nostre parti il libro rappresentava un genere di prima necessità al pari del pane quotidiano»4. Borghese certo non risolto ma conflittuale, borghese faute de mieux5. Ma per un centroeuropeo della sua generazione, le classi medie rappresentavano l’ancora dell’umanesimo occidentale tra l’arroganza feudale della nobiltà (in ungherese dzsentri, dall’inglese gentry) e le tendenze rivoluzionarie del proletariato. E l’ancora si spezza nel 1914.
Nel caos del primo dopoguerra, Márai conquistò la fama con brevi romanzi lucidi e disincantati, lontani sia dalla narrativa sentimentale popolarissima all’estero (come il Körmendi di Un’avventura a Budapest, uno dei più grandi successi letterari dell’Italia fascista) che dalle asprezze d’avanguardia. Fin da quegli inizi, il suo mondo appare ostinatamente, quasi ferocemente interiorizzato, con ponti levatoi ben alzati contro le intrusioni altrui: Libro dei ricordi s’intitola, in modo adolescenziale ma rivelatore, l’opera prima di un diciottenne. Il padre era divenuto rappresentante della minoranza ungherese al Parlamento di Praga e, malgrado la famiglia fosse di origini sassoni (il nome originale era Grosschmid, che lo scrittore cambiò legalmente in Márai solo nel 1939)5 il patriottismo ungherese si respirava in casa, sia nell’ispirazione risorgimentale del 1848-49 che nella fierezza per l’Ausgleich, il compromesso istituzionale imposto all’Austria dominatrice nel 1867, che comportò l’instaurazione della “duplice monarchia”. L’impero divenne ufficialmente, da allora, di Austria-Ungheria e Francesco Giuseppe I (come il nipote Carlo I, che gli succedette nel 1916) salito al trono sin dal 1848, prese, a seguito dell’Ausgleich, i due titoli distinti di imperatore d’Austria e di re d’Ungheria7.
Ciò condusse Márai, che nazionalista nel senso bigotto del termine non fu mai, a prendere una decisione che doveva rivelarsi fatale: l’impegno, prima ancora di conoscere l’esilio, a restare fedele sempre e ovunque alla lingua ungherese8. E poiché l’uomo aveva la prima virtù dei forti – il rispetto della parola data, a se stesso o agli altri poco importa – che non è sempre la virtù dei saggi, non cambiò più parere, condannandosi a quell’emarginazione che non conobbero i Nabokov e i Koestler, passati all’inglese, i Cioran, gli Ionesco, i Fejtö e i Kundera, divenuti scrittori francesi, il Canetti bulgaro-tedesco, l’italo-polacco Gustaw Herling eccetera. Diversa fu anche la scelta di uno dei suoi fratelli minori, che a Hollywood divenne il noto regista Geza von Radványi.
Il profeta del Secolo Breve
Il percorso esistenziale di Márai ci è accessibile grazie alla biografia riccamente illustrata, dedicatagli dallo studioso Ernö Zeltner, pubblicata in Germania e che rimane a tutt’oggi l’unica accessibile fuori dall’Ungheria9. Vi scopriamo un personaggio che fu sempre “contro”, anche se aveva vocazione più di testimone che d’uomo d’azione. Non per nulla, I ribelli (1929-30) s’intitola il romanzo autobiografico in cui spicca l’opposizione al «potere infinito dei padri»10. La rivolta generazionale non gli impedì di condividere per tutta la vita il risentimento del suo ambiente nei confronti di Benes, che era sì il padre della Cecoslovacchia democratica uscita dalla dissoluzione dell’Impero, ma anche lo statista che aveva ristretto i diritti delle minoranze e delle altre nazionalità, specie la magiara11. Il risentimento anti-occidentale e anti-cecoslovacco dei nazionalisti ungheresi sarà alla base della politica revisionista degli anni Venti e Trenta, fino alla partecipazione spesso dimenticata di Ungheria (e Polonia) alla spartizione della Cecoslovacchia, dopo il patto di Monaco del 30 settembre 1938.
Nell’immediato dopoguerra, l’Ungheria si trovò in preda a una gravissima crisi socio-politica. L’esperimento bolscevico della Repubblica dei consigli di Béla Kun (133 giorni che misero il paese a ferro e a fuoco) provocò una repressione altrettanto spietata, seguita dall’avvento del regime reazionario del conte Bethlen e dell’ammiraglio Horthy, che venne proclamato reggente d’Ungheria in attesa di una decisione definitiva sulla restaurazione della monarchia: cosa che in realtà Horthy e i suoi seguaci cercarono in tutti i modi di evitare. Márai cominciò a peregrinare attraverso l’Europa, secondo l’itinerario classico: molta Germania profonda (Lipsia, Francoforte, Weimar) poi Berlino, Parigi e Londra. Poco o niente Vienna, a quanto sembra. Quando si pensa a Márai come autore mitteleuropeo, va tenuto presente che il “mito absburgico” e la centralità di Vienna sono quasi del tutto assenti dalla sua opera. L’unica cospicua eccezione è costituita da Le braci, ove la descrizione degli anni di formazione dei due protagonisti nella capitale dell’impero ricorda Roth e Musil: ma è una scelta affatto nostalgica, puramente funzionale al racconto. Márai si avvale qui di Vienna come nella Recita si avvale di Bolzano eccetera12.
Cercò l’ispirazione anche in Italia. Vi giunse una prima volta all’inizio degli anni Trenta, come racconta nel suo capolavoro, che non poteva avere titolo più azzeccato di quello che gli diede: Confessioni di un borghese. Márai ignorava che vi avrebbe poi dovuto compiere due lunghi e involontari soggiorni, a Napoli (1949-52) e a Salerno (1968-80)13. Il bottino d’immagini e impressioni dei suoi viaggi fu notevole sin dall’inizio ed egli merita di essere collocato tra i più acuti e meno impressionistici “viaggiatori in Italia”, secondo l’immagine convenzionale. Il lettore odierno esita a pensare che le pagine sul passaggio di Mussolini nella folla esultante a Firenze non siano state scritte allora, tant’è la giustezza d’analisi che le ispirano. Invece furono proprio scritte e pubblicate nel 1933-1934, mai riprese né ritoccate dopo14.
All’estero, in quella fase, ossia da pellegrino e non ancora da esule, Márai si trovava bene. Aveva intrecciato proficui rapporti, primo fra tutti quello con Thomas Mann: rimane una bella fotografia dell’incontro tra il “Mago” e il giovane collega: tra le pochissime che lo ritraggano sorridente. I suoi libri cominciavano ad essere tradotti, il suo nome circolava, i discreti mezzi di famiglia lo mettevano al riparo dal bisogno. Cosa fu, allora, a farlo tornare sui suoi passi? Forse la malattia e la morte dell’adorato padre e la responsabilità fortemente sentita di primogenito e capofamiglia; forse la volontà, poi amaramente frustrata, di diventare una delle guide spirituali del suo paese; forse l’amore per Ilona Matzner (Lola), una giovane donna di grande personalità ed avvenenza. Si erano incontrati ventenni a Berlino, vissero poi sei anni a Parigi e non si lasciarono più. Il Márai già in possesso del suo talento, ma nevrotico e dedito all’alcol, s’invaghì pazzamente di Lola, ma soprattutto ritrovò in lei l’ancora che si era spezzata, l’equilibrio di cui aveva bisogno non solo per “fare” l’artista, ma per esserlo veramente. Avido e fortunato nei contatti amorosi, non era uomo da guardarsi indietro, né da mutare avviso. Il codice d’onore che informa il suo libro più celebre (se pur non il più importante) Le braci, fu anche la sua divisa15.
La scelta del ritorno in patria si rivelò felice e fu seguita da una serie di successi letterari, teatrali e mondani. L’intellighenzia e il bel mondo si stringevano nei ritrovi eleganti e nei teatri intorno al trentenne che appariva come il capofila di un’intera generazione, anzi di due: quella che aveva respirato il clima dell’anteguerra e quella che stava per essere risucchiata dal nuovo conflitto. Sándor e Lola erano la coppia del giorno e una gran bella coppia: bruno lui, bionda lei, aitanti e ospitali. Budapest non poteva rivaleggiare con Parigi o Berlino, ma si trovava al centro di un vasto movimento d’idee e di progetti non solo letterari, dall’architettura alla psicanalisi, dalla fotografia alla fisica. Furono gli ultimi fuochi di un’età febbrile, ritratti in libri quali Truciolo (1932) Divorzio a Buda (1935) (uscito tre anni dopo in italiano presso Baldini e Castoldi, forse per attrazione da quel titolo alla Körmendi), L’eredità di Eszter (1939) nel teatro e nelle poesie, in centinaia di articoli e saggi che aspettano ancora di essere raccolti e conosciuti internazionalmente. I romanzi di quel periodo ci sembrano una parte nettamente minore della produzione di Márai, ma quella più in sintonia con il clima europeo di dissolvimento dell’ordine borghese, alla Zweig, alla Schnitzler, alla Perutz, ovvero, fuori dal mondo austroungarico, alla Maugham. Testi ben tagliati e ben costruiti, quasi da copione teatrale o cinematografico, ma nel fondo artificiosi come il mondo che descrivono. Se l’opera di Márai si limitasse a questo, si capirebbe la sua riscoperta in un’epoca ugualmente artificiosa come la nostra, ma solo in quanto cammeo di un filone già molto noto e sfruttato tra le due guerre16.
Le avvisaglie della catastrofe colpirono i coniugi nell’affetto più caro: nell’aprile 1939 si spense, dopo appena sei settimane di vita, il primo e unico figlio che concepirono. Com’era nel suo carattere, Márai si chiuse in se stesso. Ma era uno scrittore ed è naturale che il dolore represso scorra nelle pagine dei suoi libri, come l’episodio del figlio morto nella Donna giusta17. Terminò una poesia con i versi:«Non lo perdonerò. A nessuno. Nè ora né mai»18. E conoscendo l’uomo per come ci sembra di conoscerlo, parlava sul serio. Molti anni dopo, incontrando un prete sul lungomare di Salerno, gli avrebbe rivolto la domanda dostoevskiana: «Perché muoiono i bambini?» alla quale il sacerdote rispose, abbastanza prevedibilmente: «I bambini sono in Paradiso». Márai non aggiunse commenti e non sappiamo se la risposta gli sia bastata19.
Da quel momento la sua esistenza venne investita dal corso della storia e ne fu rapidamente travolta. Il dramma dell’Ungheria, prima infeudata all’Asse poi “liberata” dalle truppe sovietiche, conobbe un crescendo di follia omicida con le gesta delle “Croci frecciate” filonaziste di Szálasy, seguite dalle purghe di segno opposto all’arrivo dell’Armata Rossa. La casa di famiglia fu più volte bombardata, occupata e saccheggiata, i parenti dispersi, la preziosa biblioteca devastata dalle soldatesche. Márai dovette prima nascondersi, perché antifascista e con moglie ebrea. Ma dopo la caduta dell’Asse si trovò nuovamente in crescente difficoltà con le nuove autorità, che alternavano il bastone alla carota. Per trattenere Márai in patria, come per far rientrare da Parigi François Fejtö, scese in campo il più illustre e mefistofelico filosofo comunista, György Lukács20. Né mancarono onori e prebende ufficiali: Márai sedeva allora nell’Accademia delle Scienze ungherese e fu nominato nel 1947 membro della delegazione ungherese alla prima sessione del Consiglio d’Europa.
La via dell’esilio e della decadenza
Ma ben presto, come documentano con scansione degna di un thriller le pagine di Terra! Terra!, fu chiaro che non restava altra via che la fuga. La rottura ufficiale ha una data che, come spesso in Márai, ha valore simbolico: l’11 aprile 1948, giorno del suo quarantottesimo compleanno. Occasione ne fu una tournée di conferenze in Francia e Svizzera, ove i suoi interlocutori progressisti, comodamente al sicuro nei loro felici paesi, chiusero occhi e orecchie sui suoi ammonimenti. Erano già i tempi in cui chi “sceglieva la libertà” veniva bollato come rinnegato e nemico del popolo21. I tre principali attori della politica filo-tedesca dell’Ungheria erano già usciti di scena. Szalasi fu processato e impiccato a Budapest nel marzo 1946. Bethlen, deportato a Mosca, vi morì in circostanze mai chiarite nell’ottobre 1945. Horthy, che era stato arrestato e deportato dai tedeschi nel 1944, fu brevemente imprigionato poi rilasciato dagli americani alla fine della guerra e si spense in esilio in Portogallo nel 1957. Ma molti loro seguaci si distinguevano per lo zelo con cui militavano nei ranghi del nuovo regime. Un ribelle come Márai diventava un testimone scomodo.
Terra! Terra! è un resoconto ammirevole, degno seguito delle Confessioni, animato da forte passione civile ma stringato nella denuncia e nell’emozione, tanto da riconoscere l’umanità di (certi) soldati dell’Armata rossa o da non infierire sugli intellettuali collaborazionisti di neri, rossi e rosso-neri. Eppure, riteniamo che sarebbe stato difficile tradurlo e presentarlo in Italia, sino ad alcuni anni fa; o lo sarebbe stato con i distinguo e le accortezze che caratterizzarono l’uscita del capolavoro di Morselli, Il comunista. Certo, le complesse vicende dell’Ungheria dal 1944 al 1948, fra terrore nazifascista, occupazione sovietica, conati democratici, instaurazione della “repubblica popolare” e satellizzazione finale del paese, sono difficili da capire per il pubblico odierno. Ma nasce il sospetto, da certi commenti stampa, che Márai vada benissimo quando ricama sottili trame amorose, un po’ meno quando descrive, per esperienza fattane, «un esperimento disumano, il grande inganno mascherato da socialismo chiamato comunismo»22.
Secondo certe voci circolate dopo la sua partenza, Márai sarebbe stato compromesso col regime di Horthy e questo avrebbe spiegato la sua decisione di emigrare. Di certo si sa solo che aveva preso posizione sulla stampa a favore dei due arbitrati di Vienna (del novembre 1938 e dell’agosto 1940) che, sotto l’egida di Hitler e Mussolini, comportarono il recupero da parte dell’Ungheria di quasi tutti i territori ceduti dopo la prima guerra mondiale a Cecoslovacchia e Romania, andando in alcuni casi oltre il tracciato del 1914. È impossibile verificare queste illazioni per chi come noi non abbia conoscenza diretta dei testi in questione. Ci sembra, tuttavia, che la reazione dello scrittore vada valutata alla luce del fatto che nel primo arbitrato era compresa la sua regione natale, che ridivenne quindi ungherese dal 1938 al 1945, per essere poi nuovamente annessa dalla Cecoslovacchia alla fine della seconda guerra mondiale, su pressione questa volta dell’Unione Sovietica. Altra accusa, molto più grave, riguarda una serie di interventi di Márai nell’immediato dopoguerra, nei quali egli avrebbe sottolineato l’origine ebraica e non “nazionale” dei principali esponenti del comunismo ungherese. Da qui un sospetto di antisemitismo che ha accompagnato lo scrittore fino a polemiche recenti di cui si è avuta l’eco sulla stampa italiana. Anche qui, non possiamo esprimerci su testi e circostanze che non conosciamo. Ma, a parte la circostanza personale del matrimonio con un’ebrea, sarà bene leggere nei diari i numerosi passi in cui egli ricorda il disgusto provato di fronte ai massacri e alle deportazioni degli ebrei ungheresi, molti dei quali suoi amici, negli ultimi mesi di guerra: «orrori che non potranno mai essere dimenticati né perdonati», scriverà ancora il 29 marzo 1986, e come abbiamo già osservato, quando Márai decideva di non dimenticare né perdonare non era uomo da far sconti a chicchessia23.
Fu così che il giovane scrittore baciato dal successo, al quale tutto e tutti sembravano inchinarsi, divenne un esule piagato ma non piegato dal destino. La sua trasformazione fisica ne è spia impressionante. Fino alla guerra, è un bell’uomo dal viso carnoso, i folti capelli scuri ravviati all’indietro, somiglia vagamente a Galeazzo Ciano, ma con un’espressione molto più intensa. Nel giro di pochi anni, le fotografie mostrano un vecchio amaro e ingrigito, vestito con la compostezza del borghese che ha salvato un solo abito dal naufragio, «rassomiglia maledettamente a quel viandante intrepido, apolide e tutto sommato, io credo, infelice»24. Triste immagine ma, ancora una volta, bella lezione di stile.
Risultate impraticabili Svizzera, Francia e Germania, i Márai optarono per l’Italia e Napoli, ove uno zio italianizzato di Lola, Luigi Marton, mise a loro disposizione un piccolo appartamento con vista mare sulla collina di Posillipo. «La benevola umanità degli italiani era rimasta immutata pur tra le prove della guerra»25. Dopo tante tragedie, furono abbagliati dallo splendore del clima e del golfo. Nel diario avrebbe descritto gli anni di Posillipo come i più belli, con un’espansione molto rara in lui: «Ho voluto bene a tutto e a tutti, e anche i napoletani, a modo loro, mi hanno accettato»26. Con i pochi beni trafugati e qualche residuo diritto d’autore, Sándor e Lola cominciarono una nuova vita. Le bocche da sfamare erano tre, perché li accompagnava János, un bambino adottato da una povera famiglia di agricoltori, che divenne da allora il centro dei loro pensieri, per compensare la ferita mai rimarginata della morte del figlio carnale. Furono anni ricchi di viaggi, d’impressioni e soprattutto di speranze che l’esilio avrebbe avuto presto fine27. Il “signor conte straniero”, come veniva chiamato dai pescatori locali, vi scrisse diverse opere significative, come il romanzo Sangue di San Gennaro28 il diario Amburgo-Napoli-Capri, il poema Discorso dei morti.29 In italiano pubblicò due romanzi oggi introvabili: La suora (Bompiani) e La scuola dei poveri (Macchia). Ma ebbe scarso commercio con il mondo intellettuale, già chiuso com’era nella sua torre d’avorio. Tra i pochi eventi esterni vi fu l’udienza concessa in Vaticano da Pio XII a un gruppo di pellegrini tra i quali si nota un Márai particolarmente severo, accostatosi alla Chiesa più per reazione allo choc dell’esilio che per intime convinzioni religiose.
Alla lunga, la scarsità di mezzi e l’incapacità di inserirsi in Italia si fecero sentire. La minaccia comunista non sembrava affatto tramontata con l’esito delle elezioni del 1948. Dall’Ungheria gli giungeva l’eco delle trasmissioni e degli articoli in cui veniva definito con scherno “primadonna agonizzante” e “servo del capitale”. Finite le lusinghe del professor Lukács!… Come altri esuli, viveva nel timore di rappresaglie, ed era convinto che i servizi segreti sovietici o ungheresi avrebbero cercato prima o poi di eliminarlo o di rapirlo. Bisogna riportarsi al clima dei primi anni della guerra fredda, in cui si verificarono non poche morti e sparizioni sospette. Prova eloquente delle sue paure è il fatto che non si sa se abbia effettivamente abitato nel domicilio ufficiale di villa Marton a Posillipo, ove è stata inaugurata alcuni anni or sono una lapide commemorativa30. Una foto scattata a Paestum mostra un uomo chiaramente sulla difensiva, pesantemente incappottato, ormai molto più simile a un profeta disarmato alla Silone che al Galeazzo Ciano dei verdi anni31. Perpetuamente appeso alla possibilità di ristampe o traduzioni delle sue opere e perpetuamente deluso, Márai si risolse a chiedere il visto e a salpare con moglie e figlio per gli Stati Uniti.
Da Napoli a New York: l’isolamento di un patriota senza patria
L’America sembrava aprir loro le braccia, come da oltre un secolo aveva fatto con gli emigranti del vecchio mondo, ungheresi in testa. Aveva iniziato a collaborare all’emittente americana Radio Free Europe: avrebbe continuato per sedici anni, con lo pseudonimo trasparente di Ulisse, garantendosi l’unica fonte regolare di sussistenza. Prima di partire, era stato annunciato dall’Ambasciata statunitense a Roma alle autorità di Washington come un personaggio di spicco, al quale riservare incarichi di rilievo. Ma per una serie di ragioni che non ci sono del tutto chiare, l’operazione fallì miseramente. Forse il clima pesante del maccartismo; forse i litigi con gli altri esuli, tra cui reduci dell’estrema destra con cui non voleva avere contatto; forse il carattere, che con il tempo e le nuove prove si era fatto sempre più esigente e scostante: sta di fatto che Márai si ritrovò presto isolato32. Vi si aggiunga la scelta di non rinunciare alla lingua natìa, scelta che finì col confinare i suoi scritti a piccole collane di esuli e autoedizioni (che oggi – segno dei tempi – vanno a ruba tra i collezionisti).33 Scrivere in ungherese, e solo in ungherese, era l’unico modo ai suoi occhi di restare legato al suo mondo, nella «consapevolezza che nascere in Europa, essere europei, non fosse solo uno stato naturale o di diritto, ma una confessione di fede»34. Non sorprenderà che anche le larghe braccia dell’America cominciassero allora a richiudersi.
Che fare? Aveva poco più di cinquant’anni, ma era esausto, ne dimostrava dieci di più in una società in cui la giovinezza, l’energia, il movimento erano la norma. Come tutte le nature creative, manteneva un rapporto strumentale con la realtà: ne prendeva quel che gli serviva e ignorava o trascurava il resto. Poteva mostrarsi generoso o egoista, premuroso o insofferente, ma solo in funzione di se stesso, mai del valore convenzionale di questi concetti. Avvinghiato all’unica cosa che gli restasse – la sua identità di scrittore ungherese, cioè di patriota senza più patria35 – rifiutò ogni altra prospettiva di impiego, cioè d’identità alternativa. Lola lo assecondava ciecamente e per i vent’anni successivi fu lei a mantenere la famigliola, impiegandosi nel reparto calzature di un grande magazzino, mentre il marito passava le giornate nei musei o nella biblioteca circolante della 42a strada, considerando qualsiasi lavoro “alimentare” al di sotto della sua missione. La sera, dopo un pasto spartano, le leggeva per ore le pagine che continuava a scrivere con la disciplina di sempre, ormai destinate ai cassetti della scrivania. Restava incrollabilmente convinto, come dichiara il suo Casanova al frate degenere Balbi, che «la scrittura non è affatto simile al potere, la scrittura è il potere, l’unico potere autentico […] la tua libertà la devi alla scrittura»36. Dopo di che si addormentava, lasciandola alle prese con i piatti sporchi e le camicie da rammendare, contento che Lola continuasse a credere in lui, mentre degli altri gli importava sempre meno. Non immaginava di essere diventato non più solo un autore ma un personaggio da romanzi, uno di quegli eccentrici drop-outs dispersi nella metropoli tentacolare, usciti dalla penna di Bellow o di Malamud37.
Condizioni indubbiamente dure, durissime. Ma sorge il sospetto che Márai abbia attivamente contribuito ad emarginarsi, o almeno che abbia fatto di tutto per chiudersi in una torre d’avorio. Si avverte qui un nodo emotivo e caratteriale che l’osservatore anche meglio disposto non riesce a indagare razionalmente. Che Márai si sentisse sopra ogni cosa custode della cultura ungherese, specie di fronte al nuovo oscurantismo totalitario, è ammirevole38. Che, come molti scrittori, ritenesse di poter dare il meglio di sé solo nella propria lingua, è comprensibile. Ma si stenta a capire perché abbia attribuito un valore così esclusivo, quasi sacrale alla versione originale, quando la sua prosa funziona perfettamente in una buona traduzione inglese, italiana, francese o tedesca ed è, dopotutto, grazie a queste traduzioni che essa ha acquisito negli ultimi anni notorietà mondiale.
Vi era nel suo atteggiamento qualcosa di più intimo, una crescente misantropia, la voglia di sottrarsi a un mondo che non lo meritava? Solo nel non inserimento lo scrittore vive radicalmente la propria condizione di moderno Odisseo. Quando l’esilio si trasforma in pubblico riconoscimento, questo meccanismo non vale più: un’altra identità si forma e si sovrappone alla prima, pur senza annullarla del tutto. Quasi tutti gli esuli illustri hanno conosciuto questa trasformazione. Così, ad esempio, Mircea Eliade, negli anni inizialmente altrettanto duri dell’esilio a Parigi e in America, si definì «scrittore romeno postumo»39. Ma Eliade trovò almeno un riconoscimento accademico, se non un nuovo pubblico letterario, sulla strada dell’esilio. Per Márai non fu possibile. Glielo impediva il suo determinismo integrale, che è la vera, ostinata componente autobiografica della sua opera, quali che ne siano le successive incarnazioni fantastiche40. Ma si ha quasi l’impressione che non lo volesse, se non a certe, allora impossibili, condizioni (il ritorno in una libera Ungheria). Sembra quasi che nell’esilio volesse stare male, per non tradire né dimenticare la patria, così come nell’esilio si era trascinato Lajos Kossuth, l’eroe del Risorgimento ungherese, morto di crepacuore a Torino, figura che Márai sentiva particolarmente vicina, anche per la sua appartenenza alla piccola nobiltà magiara del Felvidék (Slovacchia): «E proprio lui, il fuggiasco che tutti i venti del mondo sospingevano adesso verso le grandi avventure della vita, doveva sempre ricordare che la patria è eterna, anche quando sbaglia. Scrisse della patria, paragonandola ora a un tiranno, ora a un parente che non possiamo cancellare dalla nostra vita neppure se vogliamo»41.
Un caso simile al suo – all’opposto di quella che potremmo definire l’opzione integrazionista di Koestler42 – è quello di Elias Canetti, in uno dei suoi libri più belli, La lingua salvata. Il tema è noto, ma merita qui di essere ricordato. Nato e cresciuto in Bulgaria da genitori di origine sefardita spagnola, in mezzo a un crogiolo di etnie e di lingue, Canetti viene educato dalla madre giovane vedova al culto del tedesco, lingua di elezione del padre defunto. E al tedesco egli rimarrà sempre fedele (malgrado la preferenza culturale e sociale per il mondo anglosassone) perché «fu per me una lingua madre imparata con ritardo e veramente nata con dolore»43. Per entrambi, dunque, malgrado la diversità delle condizioni d’origine, l’attaccamento alla lingua nativa-elettiva diventa l’unica alternativa al caos della vita e della storia, l’unico modo di trasformare in valenza positiva il dolore provato per la perdita della patria (Márai) o del padre (Canetti), che sono poi simbolicamente la stessa cosa.
La relazione intima tra lingua ed esilio, ossia lingua come condizione del e al tempo stesso condanna all’esilio, e condanna che va vissuta fino in fondo per non rinnegare il padre e la patria, emerge in uno splendido frammento del Sangue di San Gennaro. Márai vi descrive la folla di derelitti dell’Europa dell’Est, che si trovano in fila al centro di smistamento di Bagnoli: «Sui loro nomi e nei loro incartamenti vi sono segni e accenti di ogni genere […] Gli ungheresi, i romeni, i cechi, i polacchi usano tutti accenti diversi. Si vede che non posseggono più nulla e un giorno tutt’ad un tratto, si rendono conto che senza l’accento non sono più esattamente quelli che erano prima, ai tempi in cui possedevano ancora un accento. Ecco perché insistono a trascinarsi dietro da un continente all’altro le loro vecchie e malandate macchine da scrivere, dove le lettere sono ancora provviste di accenti». Segue una rassegna delle piccole cose, un biglietto del tram, il passaporto, una foglia di castagno, che ha portato con sé44.
Ma non era un eccentrico, un buffo palazzeschiano, un esaltato, malgrado l’espressione sempre più ingufita, gli abiti lisi, le dita ingiallite di nicotina. L’ex ragazzo prodigio era semplicemente diventato quel che la vita lo aveva predisposto ad essere, dandogli le forze per reggerne il peso: uno stoico, un’anima antica. Avrebbe potuto scegliersi per epigrafe la frase che il romantico Villiers de l’Isle Adam aveva messo in bocca al suo Axel (1885): «Vivere? Ci penseranno i nostri servitori»45. Non era l’unico che, senza lamentarsi, trovasse in se stesso le forze per andare avanti. Poco prima, in un sudicio ballatoio dalla “grande mela”, consunto dalla leucemia, si era spento il suo grande connazionale Béla Bartók, intento a comporre sino all’ultimo giorno opere come il Concerto per orchestra, la Sonata per violino solo, il secondo Concerto per viola e orchestra, vera e propria colonna sonora dell’esilio novecentesco46.
Da allora e fin quasi alla fine, allorché gli venne in soccorso un editore ungherese di Toronto, Márai divenne uno scrittore postumo ancora in vita, un sopravvissuto a se stesso e ai suoi tempi, autore di un immenso e involontario samidzat in pochi esemplari stampati alla meglio, litografati, fotocopiati. Neppure la rivoluzione del 1956, che riportò l’Ungheria all’attenzione del mondo, riuscì a ridargli notorietà, anche se le sue analisi, regolarmente trasmesse da Radio Free Europe, furono profetiche nel denunciare la repressione sovietica come indizio di fragilità e non di forza del sistema socialista (fu solo allora che Márai chiese e ottenne la cittadinanza statunitense). La sua produzione non conobbe soste né esitazioni, ma uno spazio sempre più ampio veniva ora riservato ai diari, genere letterario che privilegia l’introspezione e l’osservazione selettiva della realtà. Apparso all’estero finora solo in Germania47, il diario conferma la sua vocazione di stoico e di testimone laico. Anche qui non si può prescindere dalla biografia. Il dramma di casa Márai ebbe infatti tre attori, di cui l’ultimo, fin qui rimasto in ombra, fu il citato figlio adottivo, János Babócsay, che i Márai avevano avuto in affidamento da una povera famiglia di agricoltori. Il desiderio di assicurare al bambino una buona istruzione e una vita più stabile era stato determinante nella decisione di varcare l’Atlantico. In un primo tempo, tutto andò bene: János cresceva da bravo piccolo americano. Ai genitori adottivi assomigliava ben poco, sia nelle fattezze che nell’assenza di interessi intellettuali, ignorando totalmente l’opera del padre. Terminato il servizio militare ed evitato di stretta misura l’arruolamento per il Vietnam, János aveva trovato impiego come perito elettrotecnico e messo su rapidamente una propria famigliola, con totale rinuncia all’identità e alla lingua ungheresi, diventando prevedibilmente John. Per i genitori non era stato facile accettarlo. Nella seconda metà degli anni Sessanta, dopo la fine della collaborazione di Márai con Radio Free Europe e il pensionamento di Lola, decisero di compiere il viaggio di ritorno in Europa. János era ormai indipendente e l’Italia, dove erano tornati quasi ogni estate, sembrava offrire più tranquille condizioni di esistenza della proibitiva ed effervescente New York.
Si stabilirono non più a Napoli ma in un modesto appartamento di Salerno, in via Trento 64, sempre tramite lo zio di Lola, personalità di primo piano della comunità ungherese in Campania. Vi avrebbero trascorso una dozzina d’anni di totale oscurità negli ambienti culturali, ma confortati da molte amicizie tra i vicini e la gente comune. L’Italia non rischiava più di scivolare nel campo comunista, anche se il ’68 e la strategia della tensione risvegliarono presto in loro antiche paure. Nell’osservare i maggiorenti del locale circolo di società seduti tranquillamente in piazza accanto ai frequentatori della sezione comunista, Márai annotava : «Se mai è esistita una società dove nessuno si sogna l’eliminazione delle classi, quella è la società italiana»48. Ogni giorno, lasciandosi dietro gli strilli dei bambini, i panni stesi ad asciugare, i sentori del soffritto e il rombo delle motociclette truccate, il “signor conte straniero” saliva all’ultimo piano dello stabile nella terrazza condominiale, si riempiva i polmoni catramati di aria del golfo, contemplava il mare, le barche, le albe e i tramonti : «La grande montagna cade nel mare al confine meridionale d’Italia; il silenzio, la corrente d’aria salata-iodata – tutto questo insieme è l’eterna, silenziosa bellezza»49. Lì, simile al Broch della Morte di Virgilio, riprendeva il dialogo con i suoi personaggi, che non erano più i lucidi e disincantati borghesi di un tempo, ma Giuda, Giulio Cesare, Giordano Bruno, protagonisti dei suoi ultimi romanzi, avvinti al «sadismo della storia»50. In quel clima che potremo definire di produttiva alienazione, nacquero Terra! Terra! (1972) e pagine e pagine di diario. Dai documenti e dalle testimonianze disponibili si ha l’impressione che, insieme con quelli di Napoli-Posillipo, siano stati gli anni più felici, o almeno meno infelici, dell’intero periodo dell’esilio. Il rimpianto di «questa città così signorile», continuò a seguire Sándor e Lola negli anni che restavano loro da vivere. Fino all’ultimo, nelle lettere dalla California, scritte talvolta in un italiano pittoresco ma suggestivo, parteciparono alle gioie domestiche e anche alle pene degli amici lontani, specie dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980.
Ma il destino era in agguato e si chiamava, ancora una volta, János. Fu infatti la nostalgia del figlio lontano a spingere i due anziani coniugi a intraprendere l’ultima stazione nel loro itinerario di eterni girovaghi: il ritorno negli Stati Uniti, questa volta a San Diego, sul Pacifico, ove giunsero nel maggio 1980. Furono altre due ragioni a convincerli: il timore che il comunismo dell’“offensiva Brezhnev” stesse riguadagnando terreno in Europa occidentale e l’idea che il servizio sanitario americano potesse offrire loro un’assistenza migliore di quella che Márai aveva sperimentato all’ospedale cittadino, in occasione di una grave infezione intestinale51.
Nessuna di queste premesse si verificò e il passaggio da Salerno a San Diego fu semplicemente catastrofico. János sarebbe morto di lì a poco, stroncato da un embolo. La malasanità italiana apparve retrospettivamente un modello di generosità, se non di efficienza, di fronte ai costi stratosferici delle cure mediche che i Márai erano a malapena in grado di affrontare in California. Sul piano umano, il loro isolamento divenne totale, senza il caldo sostegno dell’ospitalità meridionale. Sbagliata infine la premessa geopolitica: il comunismo non era affatto all’assalto, ma stava combattendo una disperata battaglia di retroguardia prima di soccombere. La liberazione dell’Ungheria e dell’Europa centro-orientale era ormai alle porte. Tragica ironia della sorte: il muro di Berlino cadde pochi mesi dopo il suicidio dello scrittore, il 22 febbraio 1989.
Cronaca di una morte annunciata
Possiamo seguire passo a passo la stretta finale della vita e dell’opera nell’ultimo quinquennio del diario: un lungo testamento che suscita un moto d’imbarazzo, tant’è la meticolosità con cui lo scrittore descrive il suo calvario. Valeva la pena di pubblicarlo? La risposta di Márai fu evidentemente positiva, visto che non lo distrusse (da Kafka in poi, sappiamo che gli scrittori che non distruggono i loro inediti desiderano, consapevolmente o meno, che sopravvivano loro). Ma lo è umilmente anche la nostra, tanto da auspicare non solo la traduzione italiana di quest’ultimo tomo, ma un’edizione critica dell’intero diario. Vi sono tre buoni motivi per consigliarne la lettura. Il primo è la cronaca della fine di Sándor e Lola, che suggella una lunghissima storia d’amore, vissuta letteralmente fino all’ultimo respiro. Il secondo è di natura storico-politica: le continue messe in guardia dell’autore contro il sistema comunista che scricchiola, cerca di riformarsi o di apparire tale, ma rimane incapace di farlo, confermando ai suoi occhi l’adagio per cui il lupo ha perso il pelo ma non il vizio. Il terzo, infine, è la straordinaria descrizione di grottesco, sardonico umorismo, della società americana di fronte alla morte, quale non ci era capitata di leggere dal Caro estinto di Evelyn Waugh o dal primo Updike.
L’amore coniugale come amour fou non ha avuto molto successo nell’arte del Novecento, secolo degli eccessi, a meno che non sia nella variante un pò perversa tipo Dalì e Gala. Figuriamoci quando riguarda due vecchi…52 Invece, l’amore coniugale è una costante dell’opera di Márai, sia nella variante borghese, che in quella storico-fantastica. I suoi due romanzi più rilevanti, (tra quelli a noi noti, ruotano intorno al binomio amore coniugale = vita. Nella Donna giusta, la dissoluzione di una coppia perfetta, dovuta all’incomprensione e al narcisismo, segnerà l’esistenza dei due ex coniugi con il marchio della fatalità. Nella Recita di Bolzano, Casanova rinuncia all’amore esclusivo della donna amata – che è la vita – in nome della sua vocazione, che è la rappresentazione della vita, quindi un’altra forma di narcisismo. Márai sembra qui riconoscersi nella tesi di Thomas Mann, nel famoso “brindisi” Sul matrimonio (Über die Ehe, 1925) secondo cui solo la stabilità dell’unione coniugale può consentire all’artista di tenere a freno il disordine della pulsione creativa. Ma con una differenza: per Mann, si tratta di una scelta imposta dalla ragione sull’istinto erotico (nel suo caso, omoerotico). Per Márai, di una perfetta quanto rara adesione alla legge di natura, la protezione contro il dissolvimento che minaccia l’uomo e le sue imprese53.
Questa legge imperscrutabile veglia anche sull’agonia di Lola, ridotta allo stato vegetativo, ma capace di riconoscere a sprazzi la voce e la presenza del marito che, in pessime condizioni fisiche egli stesso, la lava, la pettina, l’accudisce in un letto di clinica, con l’affanno di trovare ogni giorno i dollari necessari per il ricovero e le medicine. Il tutto viene narrato senza recriminazioni né lamenti, appartiene all’ordine naturale delle cose, fa parte della «nostra vita intensamente vissuta», anche se «morire insieme sarebbe stato il dono più grande»54. Il dialogo continuerà per i quattro anni che separano Márai dal suicidio puntigliosamente programmato: lo stesso puntiglio, lo stesso bisogno d’ordine che troviamo in ogni azione della sua esistenza. Lola continua a vivere nei ricordi, nei sogni, in una sorta di comunicazione telepatica che lui chiama hotline, nelle pagine del diario che anche lei teneva ogni giorno. Un colloquio senza interruzioni e senza fine, senza barriere tra vita e morte, in una prospettiva rigorosamente laica: «Detesto i preti e le fole della religione»55.
Sul secondo punto, quello storico-politico, il rifiuto di Márai di dare credito ai tentativi di riforma del comunismo negli anni Ottanta può sembrare una conseguenza diretta dell’esilio. Il diario registra in proposito un episodio singolare. Per qualche mistero burocratico, il nome dell’ex collaboratore di Radio Free Europe doveva essere stato segnalato a Washington a chi verosimilmente ignorava la sua opera letteraria ma riteneva utile arruolarlo nella crociata contro l’ “impero del male.” Lo testimonia un telegramma di auguri per il suo compleanno inviatogli dal presidente Reagan e consorte, cosa di cui il vecchio scrittore fu il primo a stupirsi. Márai era certamente anticomunista, com’era stato antifascista, e per le stesse ragioni. L’adepto del totalitarismo, specie se si trattava di un “chierico traditore”, non trovava grazia ai suoi occhi56. E sapeva che, a sua volta, per i discepoli ungheresi di Stalin e compagni egli era il peggior nemico possibile: un borghese liberale e illuminato. Ma non si fidava nemmeno dei nuovi leader della transizione, discepoli di Gorbaciov, e lasciò sdegnosamente cadere le loro aperture, compresa l’eventualità di un ritorno a Budapest. Ancora in una lettera del marzo 1988, alla vigilia della fine, Márai ribadiva il divieto di ristampa delle sue opere in patria fino a che le truppe sovietiche non avessero lasciato l’Ungheria e non vi fossero state indette libere elezioni, con la supervisione di osservatori internazionali. Non dimenticava, né perdonava.
Questa ostinazione può sorprendere solo chi non abbia a mente il carattere del patriottismo di Márai, che era per lui altrettanto naturale, vitale e deterministico dell’amore coniugale e familiare, anzi lo completava57. Quest’esigenza si indurì e in certa misura fossilizzò con le prove dell’esilio. Si ripeteva in peggio, ai suoi occhi, allargata all’intero paese e all’intera Europa, la perdita della “piccola patria”, subita da ragazzo, dopo la grande guerra58. Certi suoi giudizi possono apparirci sommari, persino ingiusti. Ma il vecchio esule, tagliato fuori da tutto e da tutti, ebbe vista più acuta di molti soloni della politologia occidentale, nel ritenere l’esperienza del comunismo sovietico, imposta con la forza ai paesi dell’Europa centro-orientale, non più riformabile né adattabile e nell’indicare l’ancoraggio all’Europa e all’Occidente come unica garanzia di non ritorno al passato.
Il terzo punto, infine, è sorprendente. Ci rivela un Márai inedito, involontario cronista macabro della società americana davanti alla morte. Epicentro ne è l’inferno metropolitano di San Diego e dintorni, tra California e Nuovo Messico, ma sembrano le istantanee dell’uragano Kathrina abbattutosi su New Orleans l’anno scorso: un fiume di detriti e spazzatura, l’oceano limaccioso e l’asfalto che s’incolla alle scarpe, un’umanità afflitta di vecchi e di emarginati, che vegeta dove può, nelle librerie pubbliche (evidente l’identificazione con il rifugio prediletto da Márai nei quindici anni di America), nei parchi, negli ostelli dell’esercito della salvezza. Non mancano i gesti fraterni: l’hippie che lo aiuta ad attraversare la strada, il taxista che lo sorregge, l’infermiera negra che lo assiste, ma è poca cosa. Morta Lola, morto János, morti lontano da lui i fratelli e le sorelle, Márai decide di farla finita. Ormai solo (i superstiti contatti umani sono quelli sempre più radi con la famiglia di János, le visite della cameriera a ore, la telefonata settimanale con l’editore amico di Toronto) non vuole trovarsi infermo, in mano a mercenari in qualche ospizio dei poveri. Lui ha assistito Lola, ma chi assisterebbe lui? Raduna le ultime energie per pianificare la propria fine e qui il lettore si trova improvvisamente proiettato nell’America profonda dall’arma facile di un film di Michael Moore. Márai scende a comprare una pistola e, da uomo metodico in tutto, chiede un solo caricatore; ma l’armaiolo gli passa con aria complice un’intera scatola di cartucce, «non si sa mai, possono sempre servire». Va al poligono e si trova in mezzo a un club di entusiasti del tiro, dalla ragazzina minorenne al vecchio ranchero, che si esercitano sotto l’occhio compiaciuto di un istruttore della polizia…
Si dice che la scelta del suicidio sia già iscritta nel percorso di molti poeti, scrittori e pensatori, quasi un frutto esacerbato della loro sensibilità. Certamente lo fu – basta leggerne la premonizione nei loro primi scritti – per Drieu La Rochelle o Pasolini (con buona pace delle stolte teorie complottistiche sulla sua fine) forse anche per Pavese e Morselli. Ma poi vi è un altro suicidio, incluso in una sorta di patto sulla dignità della vita in nome del libero arbitrio. Un suicidio di tipo antico, laddove la vita sotto certi livelli non appaia più meritevole di essere vissuta. È un dibattito molto attuale, legato al tema dell’eutanasia, ed è singolare che anche su questo Márai abbia qualcosa da dire.
Nel diario degli ultimi anni, Márai realizza fino in fondo la sua vocazione di uomo e di intellettuale. Aveva donato agli amici salernitani la sua vecchia e fedele macchina da scrivere Continental (quella con gli accenti, introvabile in Occidente), quasi fosse il segno della volontà di non scrivere più, in anticipazione del suicidio, o suicidio simbolico esso stesso. Ma il diario, scritto a mano, diventa, nuovamente per lui come per Canetti, il segno della «lotta per la vita delle persone che mi sono più vicine, una lotta contro malattie, operazioni, pericoli […] contro l’estinguersi della loro volontà di vivere […] [contro] la morte che devo andare a scovare fin nei suoi ultimi nascondigli per distruggere la sua attrazione e il suo falso splendore»59.
Il 15 gennaio 1989 annota: «È l’ora». Il facsimile della sua calligrafia rivela una scrittura tremolante. Ma quando mise in atto i suoi propositi, cinque settimane dopo, la sua mano non tremò60.
Dobbiamo fermarci qui, allo stato così parziale di conoscenza della sua opera in cui ci troviamo. Ma vorremmo permetterci una conclusione, che forse troverà conferma dalla pubblicazione di altri suoi testi, specie quelli di carattere saggistico e politico. Márai merita di essere ricordato non solo come una delle ultime, importanti voci del secolo breve (e orrendo) che abbiamo alle spalle, ma come un combattente per la libertà, intesa come garanzia della scrittura, «perché non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia»61. La sua ci appare dunque, e senza retorica, una «vittoria dei vinti», per dirla con Raymond Aron nel saggio sulla rivoluzione ungherese del 1956, riscoperto lodevolmente da questa rivista62. Sin da giovanissimo, Márai ebbe chiara la sua strada e intuiva il prezzo che avrebbe comportato seguirla. Ma come fu incapace di cambiarne il corso, fu incapace di tirarsi indietro:
«Chi scrive oggi sembra voler testimoniare dinanzi alla posterità che il secolo in cui venimmo al mondo proclamò un tempo il trionfo della ragione. E fintantoché mi sarà concesso di scrivere, sono deciso ad attestare che ci furono un’epoca e alcune generazioni che proclamarono il trionfo della ragione sull’istinto, e credettero nella facoltà di resistenza dello spirito, capace di domare il desiderio di morte del gregge. […] È vero, ho visto e udito l’Europa, sono stato partecipe di una cultura… Che cosa potrei desiderare di più dalla vita? E adesso è arrivato il momento di mettere l’ultimo punto fermo»63.
Note
1. Merita una menzione l’oggi dimenticato Hans Habe (1911-1977), al secolo János Békessy, autore di un’opera multiforme, prevalentemente in tedesco e in inglese, sulle orme di un Remarque o di un Klaus Mann, che, accanto a reportages e scritti di intrattenimento, contiene pagine di notevole pregio documentario e letterario. Anche Habe conobbe il destino dell’esule, negli Stati Uniti e in Svizzera, ma il successo che riscosse in vita presso il grande pubblico, se non presso la critica, gli permise di finanziare una fondazione intestata a suo nome a Lachen (www.hanshabe.ch/).
2. Le braci, a cura di M. D’Alessandro, Adelphi, Milano, 1998, p.90. Pare che in omaggio al maestro, Márai avrebbe voluto tradurre in ungherese i Buddenbrook (H. Wallmann: “Fast nur die Warheit”, Die Frankfurter Rundschau, 25 giugno 2002). È peraltro evidente sin dalle prime righe («Ah, il cane!… pensa con indulgenza. Poi gli fa un fischio ed escono a passeggio») l’omaggio al manniano Cane e padrone in Truciolo, traduzione di L. Sgarioto e K. Sándor, Adelphi, Milano, 2002, p.11. Al modello manniano si rifaceva anche l’altro maestro riconosciuto di Márai, Dezsö Kosztolanyi (1885-1936) da molti ritenuto il più grande scrittore della generazione precedente, che attende ancora pieno riconoscimento internazionale.
3. La più esplicita ricostruzione dell’ambiente familiare è contenuta nel 3° capitolo di Divorzio a Buda, traduzione di L. Sgarioto, Adelphi, Milano, 2002. «Era una famiglia di giuristi, come tante fra le famiglie della piccola nobiltà intellettuale ungherese» (p. 31).
4. Confessioni di un borghese, a cura di M. D’Alessandro, Adelphi, Milano, 2003, p. 51. La curatrice merita il plauso per l’edizione accurata di questa e delle altre opere dello scrittore. Il lettore odierno sarebbe stato tuttavia aiutato da un succinto apparato di note relativo agli eventi della storia ungherese ed europea evocati, spesso in forma rapsodica, da Márai. L’amore salvifico dei libri e della cultura riapparve trent’anni dopo, nelle temperie del secondo dopoguerra e dell’occupazione sovietica: «L’intellighenzia andava al monte dei pegni, vendeva il dente d’oro, l’orologio di alpacca per acquistare pane e medicine. O un libro […] Il ceto medio a cui era stato tolto tutto, comprava ancora libri. Quegli uomini si privavano più volentieri dell’orologio da taschino che dei loro libri» (Terra!Terra!, p. 264).
5. «Per me essere borghese non significava appartenere a una classe sociale – ho sempre creduto fosse una vocazione. Per me il borghese era il miglior fenomeno umano che la cultura contemporanea sociale aveva prodotto […] Con questa classe, la borghesia, sono stato in lite da sempre» (Terra! Terra!… Ricordi, traduzione di K. Juhász, Adelphi, Milano, 2005, p. 109).
6. «Sua madre proveniva invece dalla borghesia di origine sassone: da lei Kristóf aveva forse ereditato una certa mollezza, una maniera vaga, irrisolta di percepire la vita, una sorta di sensitività […] ma per fortuna questo lato del suo carattere si mescolava con il rigore laconico, pagano e temperato del padre» (Divorzio, p. 31).
7. Distinzione rilevata con fierezza dalla gentry: «Andrai dall’imperatore?, domandò un giorno il fanciullo, prima che il padre partisse. Dal re, lo corresse severo il padre» (Le braci, p. 39).
8. Tradusse però molto dal tedesco e scrisse in tedesco articoli e resoconti di viaggio. Questo rapporto spiega perché, fino al successo mondiale dopo la riscoperta de Le braci, l’unico paese in cui Márai avesse mantenuto una pur modesta presenza editoriale fosse la Germania.
9. Sándor Márai. Ein Leben in Bildern, Piper, München-Zürich, 2001, n. ed. 2005. In tedesco è apparso anche l’epistolario tra lo scrittore e l’amico Tibor Simanyi (Piper, München, 2002). Sul Márai “politico”, v. K. Harpprecht: “Die Auferstehung des S.M.”, Die Zeit, 38/2000, C. Geissler: “Wer bleibt, legitimiert die Gewalt”, Berliner Zeitung, 11 aprile 2000. In Italia non esiste finora a nostra conoscenza uno studio critico sullo scrittore, salvo la postfazione di M. D’Alessandro (Le peregrinazioni di un borghese) all’edizione italiana de Le braci, pp. 175-81 e il bellissimo catalogo della mostra Luce e mare. Sándor Márai a Salerno 1968-1980, a cura della Provincia e della Città di Salerno, dell’Associazione culturale ungherese della Campania, dell’Istituto italiano di cultura di Budapest e del Ministero dei Beni Culturali d’Ungheria. In francese conosciamo lo studio di E. Martonyi: “Le récit mythique chez Henri Bauchau et Sándor Márai”, Studia Minora Fac. Phil. Univ. Brunensis, 24/2003, che ha però interesse prevalentemente letterario.
10. I ribelli, a cura di M. D’Alessandro, Adelphi, Milano, 2001, p. 65. E ancora, pp. 87, 121 («Dei padri riuscivano a parlare. Era lì che si celava la radice di tutti i mali».) 128 eccetera. La rivolta raggiunge una sorta di approdo surrealista, tipico di quel periodo, ma che non abbiamo più ritrovato nell’opera a noi nota di Márai: «Lui, per esempio, non si sarebbe mai opposto al progetto di sistemare una mitragliatrice di fronte alla chiesa […] e se qualcuno avesse lanciato la proposta di appiccare il fuoco alla città in una notte di vento, l’unica cosa a lasciarlo perplesso sarebbe stata la difficoltà di mettere in pratica il progetto» (p. 102).
11. Alla «propaganda piccolo-borghese, sciovinista e nazionalista – mascherata da democrazia – dei Benes» sono dedicati molti passi polemici in Terra! Terra! (p. 238 eccetera) e nel diario. Al riguardo un aneddoto: visitando Praga nell’estate del 1919, il conte Károlyi, lo spregiudicato aristocratico “progressista” che da ultimo Primo ministro della corona d’Ungheria divenne il primo Presidente della Repubblica, si sentì dire sia dal Presidente cecoslovacco Masaryk che da Benes, allora ministro degli Esteri, che i territori ungheresi «erano stati assegnati dall’Intesa alla Cecoslovacchiasenza che questa li avesse chiesti». Masaryk si mostrò possibilista sul loro ritorno all’Ungheria: «Sentii che non era un pretesto, come invece compresi quando la stessa dichiarazione mi venne fatta da Benes». (M. Károlyi: Memorie di un patriota, ed. it. Feltrinelli, Milano, 1958, p. 181).
12. Ci sembra più calzante parlare di “Europa danubiana”, come suggerisce C. Roma, in una recensione su Emporion, 16 luglio 2003. Fermo restando che, come osserva Arnaldo Dante Marianacci, Márai fu e rimase ovunque e comunque “scrittore europeo” (S. M. a Salerno, pp. 11-12).
13. Queste le date indicate nel catalogo S. M. a Salerno. Altre fonti riportano 1967 per l’arrivo.
14. Confessioni, pp. 363-7. T. Mészáros segnala come a Milano nel 1931 sia apparso un volume illustrato curato da Márai dal titolo Venti anni di storia mondiale attraverso l’immagine 1910-1930, comprendente numerose fotografie di maschere antigas, carri armati eccetera (S. M. a Salerno, p. 94).
15. Lei non gli fu da meno e Márai lo aveva intuito. L’omaggio che le dedicò poco dopo il loro incontro – «Solida come una roccia, rimase sempre al mio fianco. E fu lei, lo so con certezza, che mi aiutò a superare i momenti più difficili. Gli uomini sono incapaci di compiere simili sforzi, e anche le donne ci riescono soltanto in casi eccezionali. Lola, donna dalla tempra formidabile, attingeva a riserve interiori pressoché inestinguibili, che dispensava senza risparmio». (Confessioni, p. 340) – è lo stesso che avrebbe potuto rivolgerle cinquant’anni dopo.
16. La bibliografia complessiva di Márai in ungherese comporta una sessantina di volumi di vario genere (v. il sito Albert Tezla’s Hungarian Authors, hu/~tezla/tezlahtm/marai.html, non aggiornato per le traduzioni). Fra i volumi tradotti all’estero ma non ancora disponibili in italiano, si vedano in tedesco l’antologia Zwischen Himmel und Erde (1942) (Piper, München, 2002) e in inglese (1949, presso Praeger) e francese il romanzo Paix à Ithaque (lgf, Paris, 1995 e 2005) tradotto da Eve Barre, consorte dell’ex primo ministro Raymond Barre, con prefazione di quest’ultimo.
17. Vi era forse anche il ricordo della sorellina appena nata, morta scivolando dalle braccia della balia (Confessioni, p. 150). Altro riferimento è quello al figlioletto morto della governante del protagonista (Le braci, p. 16).
18. Esercizi sulla tastiera 3, in S. M. a Salerno, cit., p. 29.
19. Annotazione di diario cit. in L. Csorba: Ricordi ungheresi in Italia, Benda Foto, Roma, 2003.
20. È l’impressione che si ricava dal riferimento ad uno studio molto lusinghiero dedicatogli da Lukács nel 1948, citato nella bibliografia di Tezla.
21. Ci permettiamo di rinviare il lettore su questo ed altri punti ai ricordi di François Fejtö, che ebbe però la ventura di stabilirsi in Francia già prima della guerra, in F. Fejtö – M. Serra: Il passeggero del secolo. Guerre. Rivoluzioni. Europe, Sellerio, Palermo, 2002. L’onda lunga di questa diffidenza riapparirà nel 1956, allorché molti “compagni di strada” accetteranno, pur con qualche tentennamento (Sartre) la tesi dei partiti comunisti occidentali sulla presunta regia neofascista nella rivoluzione di Budapest.
22. Terra! Terra!, p. 179.
23. V. oltre Tagebücher, cit. p. 108. Su questa delicata problematica, vedi l’opera di F. Fejtö: Hongrois et Juifs. Histoire millénaire d’un couple singulier, Balland, Paris, 1997.
24. La recita di Bolzano, traduzione di M. D’Alessandro, Adelphi, Milano, 2000, avvertenza, p. 10.
25. Terra!Terra!, p. 242.
26. Cit. in S. M. a Salerno, p. 103.
27. Fu nel primo soggiorno italiano che i Márai conobbero con Zsuzsa Szonyi, figlia di un celebre pittore ungherese e residente nel nostro paese con il marito dal 1949, che sarebbe rimasta un’amica fedelissima dello scrittore fino alla morte. Da allora e sino agli ultimi giorni, la giovane donna divenne un punto di riferimento e di costante aiuto per i due coniugi, nonché una delle più fedeli confidenti dello scrittore (il loro epistolario è stato pubblicato a Budapest nel 2000). Ho un motivo personale di gratitudine nei confronti della signora Szonyi, che fu la prima a parlarmi del Márai “privato” nelle belle stanze di Palazzo Falconieri, sede dell’Accademia di Ungheria a Roma. Il ringraziamento va esteso all’amico prof. László Csorba, attuale direttore dell’Accademia, per la sua preziosa assistenza nella preparazione di questo lavoro.
28. Apparso in tedesco nel 1957 e ristampato nel 2004 presso Piper, München, con il titolo Das Wunder des San Gennaro.
29. L’Orazione funebre (1230 c.) è il più antico documento letterario in lingua ungherese.
30. Secondo quanto dettomi dal prof. Csorba (2006).
31. «Endre aveva cominciato a invecchiare soltanto tre o quattro anni prima. Tutto ciò che vi era di pesante e di poco elastico nel suo temperamento e nel suo carattere, la sua misteriosa opposizione nei confronti del mondo che impediva agli altri di accostarsi a lui, il comportamento cerimonioso e vigile, vagamente sacerdotale che lo aveva caratterizzato sin da giovane, tutto ciò ostacolava anche da alcuni anni i suoi rapporti con gli estranei. Non si può dire che fosse scortese […] La sua bontà era impacciata, timida e maldestra». (L’eredità, p. 71).
32. Commenta Tibor Mészarós: «Tra gli esiliati, l’opinione su Márai non era unanime […] Si diceva che era un uomo rispettato da tutti, ma amato da pochi: i politici, infatti, non lo amavano perché era stato impossibile coinvolgerlo in politica. Continuava a vivere con coerenza nella sua torre d’avorio…» (S. M. a Salerno, p. 103).
33. Arthur Koestler, dava il consiglio opposto a un giovane connazionale: «If you want to make a career as a writer the only way I think is to learn English», ricordando di aver scritto il primo libro in quella lingua a ben trentacinque anni. (vedi A. and C. Koestler: Stranger on the Square, a cura di H. Harris, Hutchinson, Londra, 1984, p. 92). Ma Koestler, uno dei pochi intellettuali realmente cosmopoliti del Novecento, non si è mai sentito parte di alcuna cultura specifica: né l’ungherese, né l’ebraica, né l’anglosassone. Diverso il caso di Márai: lo conferma una lettura parallela delle loro due splendide autobiografie, le Confessioni da una parte e Arrow In The Blue e The Invisible Writing dall’altra, che spesso riportano le stesse esperienze e negli stessi luoghi. La differenza si sarebbe radicalizzata nell’esilio: «A quanto pare, in cuor suo, aveva già perso ogni speranza per i ponti, le terre e le persone. Ormai credeva soltanto nella lingua ungherese: quella era per lui la patria». (La donna giusta, p. 380).
34. Terra!Terra!, p. 241.
35. Lo aveva già anticipato, prima della guerra, commentando la fine della Cecoslovacchia dopo il patto di Monaco: «Lessi distrattamente i titoli in prima pagina. Un piccolo Stato era scomparso dalla carta geografica del mondo. Mi sforzai di provare che cosa avessero potuto provare gli abitanti di quella nazione straniera dopo aver scoperto che la loro vita, le loro consuetudini, tutto ciò in cui credevano ed avevano sperato era sparito e all’improvviso non aveva più valore». (La donna giusta, p. 80).
36. La recita, p. 61.
37. Le assonanze ci sembrano notevoli e degne di approfondimento tra il Bellow di Mr Sammler’s Planet (1970) (il cui protagonista è un esule ebreo polacco) e l’episodio finale di La donna giusta (Judit… e un epilogo) che fu redatto nel 1980, a lunga distanza dalla prima edizione (1941).
38. Persino in una delle sue (non molte) pagine sorridenti, un cucciolo rivendica di essere «un cane ungherese – o forse si tratta solamente di un essere che manifesta la propria individualità, indipendentemente dal fatto di essere magiaro?» (Truciolo, p. 77).
39. E aggiunge: «vivo è solo l’autore dei libri che escono in lingue straniere» (Le messi del solstizio. Memorie 2, 1937-1960, ed. it. Jaca Book, Milano, 1995, p. 227).
40. «Gli uomini contribuiscono al loro destino, a determinare certi eventi. […] Non è vero che il destino si introduce alla cieca nella nostra vita: esso entra dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato, facendoci da parte per invitarlo a entrare» (Le braci, p. 139).
41. La recita, pp. 118-119.
42. Una via intermedia fu quella di Issac Bashevis Singer che, in oltre mezzo secolo di residenza negli Stati Uniti, continuò a scrivere la prima bozza dei suoi romanzi e racconti in jiddish, facendosi poi aiutare a redigere una più ampia versione inglese.
43. La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Adelphi, Milano, 1980, p. 105. Naturalmente, questo nulla toglie al fatto che entrambi gli scrittori, come gli altri maggiori protagonisti dell’esilio, siano stati intensamente e autenticamente cosmopoliti.
44. S. M. a Salerno, pp. 30-31 (ivi, p. 69, la fotografia della sua macchina da scrivere). Il ricordo va ad una pagina altrettanto struggente del suo diario, in cui Eliade registra la fitta di dolore che prova al momento in cui si rompono banalmente i suoi occhiali, mentre sta lavorando in biblioteca. Subito dopo ne capisce il motivo: quegli occhiali sono l’unica cosa che gli rimanga della sua vita in Romania, prima dell’esilio.
45. L’impostazione meritocratica ed élitaria, complemento del credo determinista, traspare da tutta l’opera di Márai: «Perché adesso arrivano loro, sbucheranno fuori da ogni parte, sono centinaia di milioni e forse più. Saranno dappertutto. I brutti. Gli incapaci. La gente senza carattere. E getteranno vetriolo sul bello. Insozzeranno il talento con il fango delle loro calunnie. Trafiggeranno il cuore di chi ha più carattere di loro» (La donna giusta, pp.376-7). Essa viene ribadita nel diario, in data 22 agosto 1985: «In letteratura niente democrazia, solo solisti». (v. oltre Tagebücher, cit., p. 74).
46. Notevoli le analogie tra le loro due esistenze. Anche Bartók aveva perso la città natale (Nagyszenmiklós) divenuta romena (Sînniculae, Mare) dopo la grande guerra. Ed anche lui si stabilì in America non volendo aver nulla a che fare con il regime in patria (nel suo caso, quello di Horthy, ma è difficile pensare che avrebbe fatto ritorno in un’Ungheria divenuta repubblica popolare).
47. Tagebücher 1984-1989, Piper, München, 2002, scelta e traduzione a cura di H. Skirecki e S. Heinrichs. L’edizione originale ungherese è apparsa presso l’editore Vörösváry di Toronto nel 1997. Nella postfazione di E. Zeltner vengono spiegati i criteri che hanno indotto i curatori a tralasciare “diversi passi” relativi all’attualità politica e agli eventi ungheresi. Agli stessi curatori si deve anche un’ampia scelta dei sette volumi di diari precedenti (Oberbaum, Berlin, 2001, pubblicati anche separatamente) e dell’epistolario (2 voll., ibid.).
48. L. Csorba: Dimore di S. M. in Italia, in Ricordi ungheresi, p. 236.
49. Annotazione del 1972, in S. M. a Salerno, p. 58.
50. Diario, p. 11, in data 20 gennaio 1984.
51. Commenta Mario De Biase, sindaco di Salerno: «La breve degenza presso il nostro ospedale, nelle condizioni in cui versava nel 1969, lo porta a riconoscere un’assenza dello Stato quasi traumatica per lui, cresciuto nell’efficienza della burocrazia austroungarica». (S. M. a Salerno, pp. 8-10). Donde il trauma e l’equivoco del ritorno in America e del confronto con una sanità certo più efficiente, ma solo con i ricchi e i previdenti.
52. Márai avrebbe probabilmente condiviso l’omaggio dell’anziano Paul Morand alla moglie Hélène: «È stata la felicità della mia esistenza, va da sé; ma soprattutto ne è stata la grandezza, l’unica grandezza di questa mia vita». (cit. in M. Schneider: Mille roses trémières. L’amitié de Paul Morand, Gallimard, Paris, 2004, p. 57).
53. «La vita sono un uomo e una donna che si incontrano perché sono fatti l’uno per l’altro, perché sono, l’uno per l’altro, ciò che la pioggia è per il mare: l’uno torna sempre a cadere nell’altro, si generano a vicenda, l’uno è la condizione dell’altro. Da tale pienezza nasce l’armonia, e in questo consiste la vita». (La recita, p. 226). E ancora: «Era convinto che il matrimonio fosse un sacramento […] una grazia speciale, una manifestazione del volere divino» (Divorzio, p.61-62). Che il puritano Márai intendesse anche reagire alla fama di “paradiso del divorzio facile” dell’Ungheria tra le due guerre (tra i più noti beneficiari italiani ricordiamo Claretta Petacci)? Il moto opposto, quello dissolutorio, è invece così sintetizzato: «Un giorno mi sono svegliata, mi sono messa a sedere sul letto e ho sorriso. Non sentivo più dolore. E improvvisamente ho capito che non c’è nessuna persona giusta. Non esiste né in cielo, né in terra né da nessun’altra parte, puoi starne certa. Esistono soltanto le persone, e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c’è tutto quello che aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l’unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità» (La donna giusta, p.125).
54. Diario, p. 54, in data 31 dicembre 1984. Tutte le traduzioni sono nostre.
55. Diario, p. 131, in data 23 aprile 1987. Il termine tedesco per preti (Pfaffen) è peggiorativo. La religiosità di Márai è impossibile da investigare alla luce del poco a noi noto. Tra le ultime annotazioni del diario (24 luglio 1988, p.144) vi è un riferimento al Dio di Spinoza.
56. Il più irresponsabile dei suoi personaggi, l’amorale Lajos in L’eredità, viene presentato, già nel periodo tra le due guerre, come «paladino di diversi partiti estremisti di segno opposto» (p.40).
57. «La patria per suo padre rappresentava la più alta espressione del concetto universale di famiglia, qualcosa di inalterabile, il cui destino, all’interno della gerarchia familiare della nazione, esigeva piena responsabilità da parte dei membri di rango superiore» (Divorzio, p.39).
58. «Aveva vissuto la catastrofe con tutto se stesso, a livello sia fisico che spirituale, come se avessero mutilato il corpo dei familiari, come se con l’onta che aveva ferito il Paese avessero offeso anche il nucleo più intimo della famiglia» (Ibid. p. 39).
59. E. Canetti, Dialogo con il terribile partner, in Potere e sopravvivenza, ed. it. a cura di F. Jesi, Adelphi, Milano, 2004, pp. 80-81.
60. Come invece era accaduto al padre, almeno nella finzione: «La rivoltella con la quale il padre aveva tentato di affrettare la fine, senza però riuscire a darsi di propria mano il colpo di grazia, ed alcuni ritratti di famiglia: questo era quanto Kristóf aveva conservato dell’eredità del padre» (Ibid., pp. 39-40).
61. La recita, p. 20.
62. “Una rivoluzione antitotalitaria”, nell’inserto speciale, a cura di F. Argentieri, Ideazione, marzo 2006.
63. Confessioni, pp. 456-7 e ultime.
* da Ideazione
**Maurizio Serra, diplomatico di carriera, attualmente dirige l’Istituto diplomatico del ministero degli Affari Esteri. Saggista, ha pubblicato numerosi saggi tra cui Fratelli separati. Drieu, Aragon, Malraux, edito da Settecolori, nonché è stato vincitore del prestigioso premio Goncourt per la biografia “Malaparte”