Ho il piacere di salutare l’esordio nella narrativa di un mio concittadino, Piero Sorrentino. Ha quarant’anni, è un ragazzo bello e simpatico che non ha proprio l’aspetto dell’“intellettuale”. Il romanzo si chiama Un cuore tuo malgrado (Mondadori, 2019, euro 17). È di quel formato che più correttamente andrebbe chiamato “novella lunga”; oggi da noi il più adottato. Non posso dire abbia il fiato corto come quasi tutti quelli dei colleghi di Sorrentino; è piuttosto motivo di lode che egli non abbia voluto gonfiarlo con anabolizzanti.
Si svolge a Napoli ma non è un romanzo su Napoli. In parte ripristina la forma settecentesca (uno dei capolavori sono Les liaisons dangereuses) del romanzo epistolare. La storia corre ai confini della psicopatia: è quella di una giovane conducente di autobus regionali che, mentre guida sulla Napoli-Salerno, indossa le “cuffie” per ascoltare musica. Tra le più terribilmente comuni. Solo che così non s’avvede di un’auto contenente una famiglia di tre persone. Uccide la moglie e un bimbo piccolo, ferisce gravemente l’uomo. Quando guarisce anch’ella, vorrebbe sviluppare un patologico rapporto col sopravvissuto. Incomincia a scrivergli; le lettere di risposta che riceve sono uno degli aspetti più torbidi e inquietanti della vicenda, rivelanti un rapporto familiare pur esso morboso della protagonista. Non racconto il seguito per non guastare gli sviluppi ai lettori ai quali auguro la lettura di questo così felice e meditato esordio.
Intanto, è una lieta sorpresa l’italiano correttissimo e persino elegante dell’autore, pur nella velocità narrativa. Di questi tempi! Il suo dominio classico della lingua denuncia esperienze di lettore vaste e scaturite da buone scelte. Il ritmo prosastico è buono e non casuale: exemplum e contrariis: Francesco Piccolo… Ancor più, la capacità di Sorrentino d’inventare trame è per me oggetto di profonda invidia: se l’avessi, sarei anch’io un narratore, ché posseggo la lingua e non la fantasia. Rispetto a un narratore, sono il corniciaio rispetto al pittore. Quella di Sorrentino è originale e insolita, si fa seguire con qualcosa di più del semplice interesse, contiene colpi di scena abilmente immaginati e costruiti. Se il titolo l’avessi scelto io, sarebbe stato (alla Wilson) Memorie dalla contea di psicopatia; ma questo è ottimo. Il mio titolo scaturisce dall’idea che la protagonista sia folle, prima – altrimenti non sarebbe avvenuto l’incidente – e poi per tutto il corso dell’opera. E tale psicopatia è benissimo descritta. Si potrebbe obbiettare che l’abbandono che ella fa delle benzodiazepine ex abrupto senza conseguenze gravi urta contro il verisimile. Lo dicono tutte le esperienze cliniche. Ma siccome la psiche è quanto di più misterioso esista, l’obbiezione sarebbe infondata.
Mi sono interrogato sul tema se il finale regga. Prima facie, pare conclusione consolatoria, che abbassa la temperatura del libro. Se l’avessi scritto io, avrei immaginato Bianca sprofondare sempre più nella depressione, nella malattia, nell’isolamento. Ma, ripeto, non sono un narratore. E ne ho dato un’altra interpretazione. Non so se sia quella dell’autore, ma siccome ormai l’opera si è da lui distaccata, la mia è altrettanto lecita. E vedo questo finale come se, di fronte all’infinita vanità del tutto, peccato e innocenza, punizione e perdono, si equivalessero, del pari privi di senso. Io leggo attraverso il mio Borges, e la chiave è la novella I teologi; per esempio.
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*Da Il Fatto Quotidiano del 30.1.2019