Tutto si tiene, in Michel Houellebecq. La critica al liberalismo e le paturnie del ceto medio impoverito, la rivolta dagli echi persino vandeiani contro la nuova borghesia e lo scetticismo razionale sul progresso, l’incapacità relazionale con i nuovi paradisi artificiali della farmacologia, la solitudine dei molti e la moltitudine di ansie, l’impotenza sessuale con quella di incidere sull’esistente. E’ per questo che ridurre “Serotonina”, l’ultimo capolavoro dello scrittore francese, a mera profezia della rivolta dei gilet gialli che sta squassando le pigre e poche certezze della Francia macroniana, sarebbe un torto inaccettabile verso lo scrittore più geniale, amaro e profondo che l’Europa abbia prodotto negli ultimi decenni.
Il protagonista di “Serotonina” è Florent-Calude Labrouste, uomo senza qualità ma soprattutto senza speranza, è un funzionario del ministero dell’Agricoltura francese completamente disilluso sulla funzione sociale del suo lavoro. Non un reietto ma, come spesso nei romanzi dello scrittore francese, un esponente del ceto medio devastato dalla globalizzazione. Un quarantaseienne che vive in un asettico grattacielo di quella Parigi ««che odiavo, quella città ammorbata da borghesi ecoresponsabili mi ripugnava», con una donna giapponese eterea nella sua volgarità, anti-geisha tanto raffinata nella forma quanto sconcia nel suo vuoto. Florent-Claude è profondamente depresso e trascorre giornate vuote contraddistinte da pomeriggi che rappresentano «quel lasso di tempo commercialmente informe ma socialmente incomprimibile che in Europa separa il pranzo dalla cena». Consumatore tipo, cioè «una piccola creatura impulsiva», non ha idee né ideali, è sideralmente distante da qualsiasi forma di politicamente corretto, anzi guarda alle sue psicosi con un sorriso amaro (quando riflette sul concetto di “femminicidio” lo trova «un concetto piuttosto divertente, faceva pensare a insetticida, o ratticida») e coltiva un disprezzo profondo per qualsiasi forma di socialità («la mia mancanza di civismo mi inorgogliva abbastanza»).
Decide di sparire, di sottrarsi a quell’esistenza grigia scandita dalla rivoluzione informatica che rade al suolo la dimensione concreta del vivere quotidiano: «Era un po’ triste constatare che non avevo nessun ricordo personale da portare con me: nessuna foto, nessuna lettera e nessun libro, quella roba era tutta nel mio MacBook Air, un sottile parallelepipedo di alluminio spazzolato, il mio passato pesava 1100 grammi». Trova nel Captorix, uno psicofarmaco a base di serotonina che «non crea né trasforma; interpreta», l’illusione di una «tristezza tranquilla, stabilizzata, non suscettibile di aumento ma neanche di diminuzione, insomma una tristezza che tutto avrebbe portato a ritenere definitiva». E fugge dalla Parigi anonima per cercare in campagna le tracce di un passato che rimpiange con la cristallina consapevolezza che la vita non offre una seconda chance.
Rintraccia Aymeric, un amico dei tempi dell’Università, erede di una famiglia nobiliare della Francia rurale che vive sulla propria pelle la crisi dell’agricoltura impoverita dalla globalizzazione e dalla logica senza limite del capitalismo transnazionale. Un personaggio «fondamentalmente gentile e anche buono», che «aveva solo desiderato essere felice, si era impegnato nel suo sogno agreste incentrato su una produzione ragionevole e di qualità, anche su Cécile, ma Cécile si era rivelata una grandissima stronza affascinata dalla vita a Londra con un pianista mondano, e pure l’Unione europea era stata una grandissima stronza con quella storia delle quote latte». Una figura dagli echi persino vandeiani («con le armi in pugno per proteggere i contadini francesi, e questa era sempre stata la missione della nobiltà», scrive l’autore di Sottomissione e Piattaforma) che guiderà una piccola e tragica rivolta contadina che finirà nel sangue e in un nichilistico ed emblematico gesto definitivo.
Ma Serotonina è anche un immenso romanzo d’amore, della disperante ricerca di amore che sia progetto, felicità, gioia del donarsi. Tutti elementi che paiono ormai irraggiungibili per lo scrittore francese che, dai tempi di Estensione del dominio della lotta, rintraccia nel liberalismo sessuale lo specchio di un liberalismo economico che pone denaro e sesso quali colonne dell’esistenza occidentale. Florent-Claude cerca morbosamente il ricordo di due donne amate, che forse avrebbero potuto renderlo felice e che, invece, lui si è fatto scappare per egoismo. Ed è altamente simbolico che il Captorix, in cambio di una stabilizzazione della “tranquilla tristezza” chieda in cambio il sacrificio di ogni istinto o stimolo sessuale, emblema dell’impotenza storica di un’intera generazione che uccide ogni vagito di volontà creatrice. «Eccomi lì, uomo occidentale nella sua età di mezzo – scrive Houellebecq -, al riparo dal bisogno per qualche anno, senza parenti né amici, privo sia di progetti personali sia di veri interessi, profondamente deluso dalla sua vita professionale precedente, avendo affrontato sul piano sentimentale esperienze diverse ma che avevano in comune il fatto di interrompersi, privo in fondo sia di motivi per vivere sia di motivi per morire». Incarnazione di un’intera società civiltà occidentale che «muore senza seccature, senza pericoli né drammi e con pochissimo spargimento di sangue, una civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé».
Il testo di Houellebecq è un romanzo totale, in cui la dimensione politica è tutt’uno con quella esistenziale: l’amore, il sesso, il lavoro, la disperazione, la noia e il disgusto, la Francia e l’Europa, sono temi trattati ora con sarcasmo corrosivo ora con chirurgica distanza. L’autore indossa il camice asettico del medico legale che affonda il bisturi sulla carne purulenta e fredda di un cadavere. E’ l’erede diretto di quella tradizione francese del poeta maudit, con capostipite quel Baudelaire citato nel testo, che però ha perso ogni traccia di nostalgia del romantico nel suo decadentismo ma che, invece, analizza l’assenza senza lirismi, con il ghiaccio di una lingua piana e distante.
Eppure, nonostante il tramonto dell’Occidente abbia già lasciato da tempo spazio a una notte senza fine, resta un irrazionale aggancio alla dimensione naturale dell’esistenza di ogni uomo, da rintracciare in quelle zone sepolte difficili ormai da evocare, anche attraverso formule. «Sperare contro ogni speranza è l’unica che riesca a farmi venire in mente. Non è come la notte, è molto peggio: e ho la sensazione, pur senza aver vissuto personalmente quest’esperienza, che anche quando si sprofonda nella vera notte, la notte polare, quella che dura sei mesi di seguito, persista il concetto o il ricordo del sole. Io ero entrato in una notte senza fine, eppure persisteva, nella parte più profonda di me persisteva qualcosa, molto meno di una speranza, diciamo un’incertezza». Aggrapparsi a questa incertezza con tenera ferocia, in fondo, sembra suggerire Houellebecq, è già un atto di coraggio.
*Michel Houellebecq, Serotonina, La Nave di Teseo, 2019, 19 euro
Certo che con la brutta faccia da corvo spelacchiato che si ritrova, poveraccio, il primo a non poter coltivare speranze è proprio lui, Michel Houellebecq.