La bibliografia su Ovidio è sterminata: del poeta di Sulmona hanno scritto filologi, storici, storici dell’arte, archeologi… e ognuno ha scandagliato da prospettive diverse i carmi e la personalità del “cantore di teneri amori”, trovando ampia materia per approfondire non solo la sua poetica ma anche le nostre conoscenze del mondo antico.
Ma un libro come La dotta lira poteva scriverlo solo Paolo Isotta! E perché, si chiederà qualcuno? Perché in questo saggio, denso e scintillante ad un tempo, sono fuse insieme in un inscindibile e appassionato rapporto, una ampia e approfondita conoscenza dell’antico e una cultura musicale che pochi possono vantare.
Ma andiamo con ordine: la spinta a scrivere questo libro (ce lo dice l’A. stesso) gli è venuta dal grande amore che egli prova per il cantore di Sulmona, un amore condiviso da molti (certamente da me), a cui si univa la preoccupazione che il bi millenario della sua morte nella inospitale Tomi, lontano da parenti ed amici e da quella Roma che egli aveva amato appassionatamente, non fosse degnamente celebrato. Preoccupazione giusta, visto che la fama del creatore del più grande affresco della mitologia antica che ci sia pervenuto, ha subito nel tempo momenti di alterna fortuna nel mondo togato dell’Accademia, che l’ha anche bollato, per un certo periodo, con la punitiva definizione di “dilettante di sensazioni” (Paratore) (inutile ricordare che dobbiamo all’acume esegetico di Scevola Mariotti e Emilio Pianezzola l’inizio di una riabilitazione che ha restituito al poeta quel posto privilegiato nell’Olimpo dei grandi che certamente gli spetta), e quindi Isotta si è accinto alla sua opera, scegliendo una via mai tentata da altri e regalandoci un libro magico che, lo confesso, mi sento del tutto inadeguata a presentare. Non perché io ami Ovidio meno del nostro autore (la mostra che gli ho dedicato, e che Paolo Isotta ha avuto la bontà di lodare, ne è testimonianza evidente) ma perché sono del tutto sprovvista di cultura musicale… Quindi, per non fare un torto troppo grande a un libro che merita di essere letto anche per la sua prosa elegante e raffinata (una prosa che la cultura dei tweet tenta di uccidere…), mi limiterò a soffermarmi su quegli aspetti che più mi sono congeniali, consapevole che comunque non saprò render conto della densa materia trattata dall’A.
Titolo
E cominciamo dall’esterno del volume: titolo e immagine di copertina. Il titolo (la dotta lira) è desunto, come ci dice l’A., da un verso della Dafne di Rinuccini (Ovidio su la dotta lita canta le fiamme de’ celesti amanti); con queste due incisive parole Isotta intende, io credo, offrire una immagine del poeta diversa da quella consueta che lo rappresenta come licenzioso cantore di facili amori o abile interprete della mitologia classica; queste due parole spostano il focus sulla cultura di Ovidio intellettuale e profondo conoscitore di filosofia e armonie dei cieli, e sulla sua capacità di creare con le parole, non solo immagini, come tutti da anni vanno dicendo, ma musica… una musica che dalla sonorità del verso passa a diventare vero suono. La formula del Rinuccini, la dotta lira, è così efficace che anche Leopardi la fa sua e la consacra nell’ultimo canto di Saffo (p. 19): per dotta lira o canto virtù non luce in disadorno ammanto.
Immagine
E veniamo all’immagine di copertina, per cui l’A. ha scelto l’Apollo e Dafne di Dosso Dossi in un’iconografia assolutamente originale, che mostra in primo piano il dio, gli occhi al cielo, la corona d’alloro sul capo, che ha appena finito di intonare il suo canto accompagnato da uno strumento non classico, la viola, che sostituisce la tradizionale lira, mentre sullo sfondo, quasi invisibile, si intravvede una figurina di donna in fuga che leva alte le braccia già trasformate in rami. Il mito che il pittore mette in scena, appare dunque un pretesto, del tutto soverchiato dalla presenza del dio ispirato: Apollo e la musica sono infatti i veri protagonisti del quadro, quella musica che Ovidio creava con i suoi versi e che ha ispirato quei librettisti e compositori, che Isotta presenta, interpreta, spiega ai suoi lettori. Da iconografa non posso non cogliere l’abilità del pittore che costruisce un racconto per simboli evocativi che dialogano con la contemporaneità dell’ambiente ferrarese, in cui il quadro fu verisimilmente concepito, dove la musica era di casa; ma lodo altresì l’intelligenza della scelta che mette la musica al centro della prospettiva dell’analisi ovidiana.
E questa grande capacità di stabilire un contatto fra i due mondi (la poesia di Ovidio e la musica che da essa promana) è una delle grandi novità del libro di Isotta, che afferma con forza che il nodo che stringe alla musica il poeta di Sulmona è tenace, lungo nel tempo, mirabilmente fecondo di risultati artistici.
Dedica
Apriamo ora il volume e prima di scorrere l’indice (per inciso: un indice come piace a me… ampio e dettagliato, che indirizza il lettore e gli fa avere da subito una panoramica sui contenuti), prima di scorrere l’indice, dicevo, vorrei soffermarmi sulla dedica a Cesare De Michelis, grande editore e accademico italiano e indimenticato amico, da poco scomparso, di cui ci mancherà per sempre la lucida intelligenza e quella sottile ironia che gli brillava negli occhi.
D’Annunzio
Sotto alla dedica tre versi di Gabriele D’Annunzio (in silenzio guardammo i grandi miti come le nubi sorgere dall’Alpe ed inclinarsi verso il bianco mare), in cui Ovidio è presente nella melodia del verso, nel dominio sulla parola ma anche nel riferimento al mito, protagonista della sua poesia; da subito il lettore è introdotto verso una delle molteplici chiavi di lettura di questo libro; perché D’Annunzio è una sorta di doppio moderno del grande Sulmonese. E il suo spirito dionisiaco emerge a tratti lungo il lungo percorso che Isotta traccia per inverarsi nell’ultimo capitolo quasi interamente dedicato alla Dafne dannunziana, pervasa di spirito panico e del tutto metamorfizzata rispetto a quella ovidiana. D’altronde, che un legame stretto unisca i due grandi abruzzesi (abruzzesi ma con DNA diverso, come Paolo Isotta non manca di rimarcare: Peligno l’uno, Marrucino l’altro… precisazione non priva di significato…) è cosa nota, e questo legame è fatto anche di dominio sulla parola e di musicalità del verso. Qualità, direte voi; difetti, secondo una critica miope che ha accusato entrambi di lascivia, intendendo con questo termine non una certa tendenza alla libertà di costumi che pure li accomunava, ma quel gusto per una lingua ricca, aggettivata, densa di sinonimi e di allitterazioni, che è alla base della forza immaginifica dei loro versi (per inciso, giova ricordare che il primo a usare il termine lascivia nel senso di esagerata ricchezza della lingua è stato l’oratore Quintiliano).
Traduzioni
Un’altra precisazione riguarda la scelta delle traduzioni: a p. 22 l’A. passa in rassegna le migliori traduzioni italiane, quelle accademiche, più note e più togate, ma anche quella di Sermonti (finissima pur se dichiara di essere priva di ambizioni filologiche) e rende ragione delle sue scelte. Il preferito è Bernardini Marzolla, ma, come vedremo, non solo… perché quandoquidem dormitat et Homerus sonnecchia anche Omero di tanto in tanto… e quindi Isotta in taluni casi preferisce traduzioni diverse, quando non ne propone di sue, insoddisfatto di quelle dei latinisti. E in un prezioso paragrafo intitolato Noterella di un pedante bacchetta i più grandi traduttori per non essere riusciti a rendere in italiano le preziose parole che Ovidio dedica alla musica di Orfeo; a giustificazione dei traduttori mi sento di dire che solo Isotta poteva cogliere grazie alla sua conoscenza della lingua latina e della musica il senso ultimo di alcuni difficili passaggi. La Noterella inizia con queste parole le traduzioni che conosco non mi soddisfano, essendo tutte errate o imprecise, almeno in un particolare, magari ogni volta diverso… poi commenta con dottrina le varie traduzioni, ne propone una nuova e conclude sottolineando un aspetto importante della personalità del poeta, su cui spesso ritorna nelle dense pagine del saggio: Ovidio, il quale ha avuto una formazione filosofica, di musica scrive scientificamente. Quasi a dire: traduttori, attenti!!! La parole sono espressione di concetti, non sono lì a caso per la musicalità del loro suono!!! D’altronde, per Isotta la traduzione non può, e non deve essere semplicemente letterale, ma deve rispondere (cito) a quelle risonanze nel proprio deposito di memoria poetica e figurativa, nella propria immaginativa; deve, in sostanza far risuonare le corde del cuore del lettore.
Tempi
Ecco, confesso che ho avuto difficoltà a coniugare l’attenzione quasi maniacale che l’A. dedica ad ogni più minuto dettaglio e la sua capacità di intervenire anche sugli aspetti filologici con i tempi di realizzazione di questo corposo saggio che conta, compresi gli indici, ben 426 pagine: a p. 17 dell’Avvertenza (bella la scelta del termine, anziché il più banale Introduzione o Premessa), egli dice di aver iniziato la scrittura a ottobre del 2017 (!!) meno di un anno quindi per questa cavalcata nella cultura europea (musicale, ma anche, come vedremo, letteraria ed artistica). Ma poi spiega al lettore che se la stesura del libro è stata di getto lo studio è stato lunghissimo… iniziato nel luglio del 1975, l’A. era ancora ragazzo) quando al Festival di Monaco aveva assistito alla Daphne di Strauss (il cui commento appassionato e dotto illuminerà l’ultimo capitolo…) e, continua, mi ci sono voluti 43 anni, ma il seme era stato gettato!
Dopo tutte queste premesse veniamo finalmente alla struttura del libro, composto di otto denissimi capitoli, ciascuno dei quali si articola intorno a un personaggio o a un tema principali, da cui si dipartono riflessioni e sentieri secondari in un percorso spiraliforme che ricorda la costruzione delle Metamorfosi. Non è facile illustrare l’immensa materia contenuta nel testo: mentre leggevo la definizione che mi veniva più spesso in mente era varius, multiplex, multiformis che è anche il titolo di uno dei capitoli che Marguerite Yourcenar ha dedicato al suo Adriano… ma proverò a seguire i diramati fili, invitando i presenti ad una lettura personale, che sola può dare conto della pienezza del saggio di Isotta.
Dafne
Il primo capitolo si apre con la Dafne di Ottavio Rinuccini, né poteva essere altrimenti, tenuto conto che Dafne è anche la prima protagonista di una storia d’amore nelle Metamorfosi; dopo aver narrato con respiro cosmico delle origini del mondo, dell’empio Licaone, del diluvio, con i due sopravvissuti Deucalione e Pirra destinati a ripopolare il mondo, il poeta di Sulmona inizia con quelle storie d’amore che lo hanno reso così famoso, e sceglie come apertura proprio il racconto che orna la copertina del libro: la storia di Dafne, figlia del fiume Peneo, una delle tante vittime incolpevoli del poema; vittima due volte, di Eros che per vendicarsi di Apollo che lo aveva sbeffeggiato suscita in lui una incontenibile passione per la fanciulla che si era votata alla castità, e del dio di Delfi che inutilmente la ama, e cerca di sedurla prima con le parole (io son colui che rivela passato, futuro e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra “per me concordant carmina nervis” colui che presiede alla musica: non oso tradurre…) e poi inseguendola per monti e per valli fino a che nel momento in cui sta per afferrarle la sventurata chiede ed ottiene di essere trasformata in alloro. Non mi dilungherò oltre, ma mi piaceva sottolineare questa corrispondenza fra poema e saggio.
Musica: Achille
Poi Isotta prende il largo e inizia quel percorso fra letteratura, musica, arte, storia (le corti europee), che è uno degli aspetti più suggestivi della sua scrittura. Fin dal primo capitolo infatti il quadro si anima con scorci sulle corti rinascimentali e sul ruolo che la musica assunse in quei contesti.
Una musica che eleva, così come era tradizione nel mondo antico: e qui mi corre l’obbligo di una piccola parentesi circa un episodio che mi ha colpito e di cui vorrei poi discutere con l’Autore. Il valore catartico ed educativo della musica è elemento ricorrente nella tradizione classica: Achille, offeso da Agamennone, si ritira nella sua tenda e cerca conforto nel suono della sua cetra; e la musica era centrale nel percorso dell’educazione giovanile; è ancora Achille che ce ne offre una testimonianza evidente: presso Chirone egli impara a dominare il suo corpo, a combattere le fiere, ad andare a cavallo, ma impara anche l’arte medica, la retorica e la musica. Chi non ricorda statue ed affreschi che mostrano il fanciullo mentre il centauro gli insegna a trarre dolci suoni dal suo strumento? Ecco allora che mi sono sempre chiesta perché nel famoso piatto di Kaiseraugst, con il racconto della nascita ed educazione del figlio di Tetide e Peleo, si è preferito mettere in scena il rifiuto della musica, mostrando l’eroe che getta la cetra per afferrare il disco come se l’educazione del corpo fosse preferibile. Chissà, forse riemerge in questa isolata immagine l’insegnamento di Giuliano, l’imperatore consegnato alla storia con il punitivo appellativo di Apostata, che riteneva che la musica elevasse chi l’ascoltava ma non chi la eseguiva: l’ultimo alfiere del paganesimo imputava forse alla musica quella mollities che egli voleva combattere, riportando a Roma i rudi costumi dei progenitori, avvezzi all’aratro e alle armi più che alla cetra.
Tuttavia, fortunatamente, questa accezione negativa è rimasta marginale e da sempre la musica è cultura e conforto.
Euridice
Il secondo personaggio che incontriamo è Euridice, ancora un personaggio femminile (d’altronde non è forse vero che Ovidio è uno dei più raffinati e sensibili indagatori dell’animo femminile?) ed Euridice ci porta ad Orfeo, doppio mortale di Apollo di cui l’A. insegue la fortuna da Mantova a Roma, a Parigi, a Napoli, a Vienna, in una cavalcata che passa dagli autori ai contesti, lumeggiando la società destinataria delle opere, senza lasciarsi sfuggire l’occasione di una riflessione sul contrasto fra spirito dionisiaco e apollineo.
Casa Rossini
A tale proposito mi piace sottolineare che la cultura e sensibilità dell’A. lo porta a una raffinata lettura iconografico iconologica del programma decorativo della Casa Bolognese di Rossini (da iconografa, quale io sono, non potevo lasciarmi sfuggire questa chicca, che ora vorrei condividere con voi). Il palazzo, sito in strada Maggiore venne restaurato dall’arch. Francesco Santini. Sullo scalone ellittico due altorilievi: in uno sono raffigurati i cimbali (attributo, come è a tutti noto della madre berecinzia e di Dioniso), un sistro (isiaco), una siringa (simbolo pastorale), la fiaccola (Ecate?), un corno (strumento dei tiasi marini) e i serpenti delle Menadi (Bacco), in un tripudio di suoni acuti e sfrenati, tipici dei riti orgiastici. Nell’altro rilievo troviamo invece la lira dalle sette corde e una corona d’alloro: scelta non casuale, dice l’A., che esprime la duplicità del committente, apollineo e dionisiaco ad un tempo. Sul soffitto una lunetta con una veduta di Napoli, con un tempietto dorico evocativo dell’esperienza napoletana di Rossinie due figure che rappresentano l’ammaestramento della musica. E fin qui è descrizione dotta e grande capacità di annodare i fili sottili del programma voluto dal grande compositore; ma Isotta va più in là e interpreta i due rilievi alla luce di una breve iscrizione apposta sul frontone del Palazzo: obloquitur numeris septem discrimina vocum inter odoratum lauri nemus, tratta dal libro VI dell’Eneide dove è descritto Orfeo, che con la lunga veste del sacerdote canta con ritmo la scala di settemplici suoni (traduzione Della Corte) (per inciso anche qui l’A. si diletta a bacchettare i traduttori che non colgono il sottile significato di ogni termine e traducono con leggerezza o con inesattezze: a loro difesa posso dire che non sanno di musica come Isotta… e, aggiungo, che in analoghi errori incorrono quando parlano di archeologia…). Ma il passaggio più significativo riguarda l’aggiunta del fragrante bosco d’alloro che non è virgiliano ma ovidiano e che non può non richiamare il secondo dei rilievi dello scalone: a questo punto la lettura si fa sottile e Isotta si chiede chi è il soggetto a cui si riferisce l’iscrizione, che canta con ritmo la scala perfetta: Orfeo, come suggerito da Virgilio? Apollo come sembra alludere l’alloro fragrante? Oppure, ecco la zampata del leone, lo stesso Rossini? E cito dal testo il Maestro, che a soli 33 anni aveva compiuto la parabola artistica, aggiunge se stesso alla lista dei compositori considerati il moderno Orfeo, ma aggiunge: sono Orfeo e insieme il padre suo… a questo punto, tornando ai rilievi, e pensando all’alloro che corona la cetra di Apollo, è evidente il riferimento a Dafne e il cerchio si chiude: quell’alloro corona le tempie del dio, corona anche quelle di un erede moderno di Orfeo e di Apollo: il cigno di Pesaro.
Arianna – Medea
Con il capitolo successivo l’A. passa a due protagoniste femminili, la dolce Arianna e la tremenda Medea, che, nonostante le differenze, mite la prima, capace di crimini orrendi la seconda, incarnano il prototipo della donna sedotta e abbandonata: Arianna e Medea, unite anche dalla comune genealogia solare. Entrambe infatti sono nipoti del Sole, figlie l’una di Pasifae e l’altra di Eeta. Strano destino questo delle donne che discendono dal grande Helios, donne fatali, ora vittime ora carnefici. Pensiamo ad esempio a Circe, maga impietosa, figlia dell’astro diurno, a cui il destino riserva numerosi fallimenti in amore: rifiutata da Ulisse che vuol tornare da Penelope, ma anche da Pico che ama Canente e da Glauco che ama Scilla; Circe è il terzo elemento di triangoli amorosi in cui è sempre perdente. E le sue implacabili vendette non le restituiscono mai l’oggetto dei suoi inutili amori. Va appena meglio all’altra figlia del Sole, Pasifae, madre di Arianna e Fedra, che si unisce in un torbido amplesso al più bel toro della mandria… La maledizione che colpisce la genealogia solare si estende anche alla generazione successiva: Medea, che ama lo straniero Giasone, per lui tradisce patria e parenti, uccide addirittura il fratello per frenare l’inseguimento del padre, ma finisce per essere abbandonata dal suo amante e spinta a compiere il più efferato dei delitti. Identica è la prima parte della storia di Arianna, che pure ama uno straniero, che per lui tradisce, ma è poi da lui tradita. E la scena della fanciulla abbandonata a Nasso che si desta e vede la nave che si allontana e si strappa i capelli e grida Teseo crudele, ha ispirato gli artisti delle arti figurative (pensiamo a tanti affreschi pompeiani o al delizioso quadretto di Carlo Saraceni per non citarne che alcuni…) e non poteva non fornire materia ai librettisti e ai compositori, di cui il saggio di Isotta ci fornisce un esauriente panorama. Ma, naturalmente, nel trattare l’eroina, il cui riscatto è affidato a un Dioniso innamorato (la donna non sa che anche il dio la tradirà), Isotta non poteva mancare di far riferimento anche a Catullo che nel suo carme 64 ci fornisce una straordinaria descrizione del mito. E il confronto fra Catullo ed Ovidio detta a Isotta parole indimenticabili che nascono dalla sua profonda conoscenza del teatro: a Catullo, dice l’A., interessa esprimere il sentimento di Arianna, a Ovidio piuttosto rappresentarla mentre prova i suoi sentimenti e mentre si dispone secondo attitudini della recitazione… Ovidio, continua Isotta, trasforma la scena operistica ideale costruita dal suo predecessore in una scena operistica pienamente attuata… Sul rapporto tra la poesia dei due grandi cantori di Arianna e il teatro l’A. ritorna ancora; e di nuovo cito le sue parole perché non saprei dire meglio: il mito di Arianna è già teatro in nuce nel carme di Catullo, nell’epistola di Ovidio è una vera scena d’opera. Il lungo capitolo dedicato alle eroine abbandonate, Arianna e Medea, a cui l’A. non può non aggiungere Didone, pur se le sue vicende sono in parte diverse, è di un’intensità coinvolgente: con somma dottrina Isotta segue l’evoluzione dei personaggi attraverso la diversa sensibilità di coloro che ne hanno scritto e musicato e dell’epoca in cui hanno vissuto. In molti testi del ‘900 le eroine subiscono una metamorfosi (cosa c’è di più ovidiano di questo?), ma è von Hoffmanstahl che conferisce all’Arianna un nuovo aspetto, realizzando quella metamorfosi del mito che sempre rinasce in forme nuove, a cui la musica di Strauss attribuirà un valore definitivo; se è vero dunque che l’Opera ha messo in scena per secoli la principessa cretese, è altresì vero che un sommo operista del ‘900 ha compiuto il miracolo: dall’Opera fa tornare Arianna nel mito, ove resterà per sempre.
Polifemo, Galatea, Aci
E proseguo: fra i mille spunti offerti dal densissimo saggio di Isotta vorrei ora brevemente soffermarmi su un altro mito che ha ispirato librettisti e compositori soprattutto nel ‘700 e che ha subito quella metamorfosi che ha interessato spesso i personaggi ovidiani: quello di Polifemo e Galatea. Isotta parte dalla serenata di Haendel intitolata Aci, Polifemo e Galatea; e già questo è un tratto che merita di essere sottolineato perché Aci è creazione ovidiana (quasi del tutto ignorata dal repertorio iconografico classico) che godette di grande fortuna nella pittura rinascimentale e barocca; ma l’aspetto più interessante riguarda la fusione, nel testo del Giuvo, fra il grottesco e barocco Polifemo ovidiano e quello delicato e romantico di matrice teocritea. L’influsso del Sulmonese è straordinariamente incisivo anche nelle parole che il monocolo pronunzia nella versione londinese di John Gay, che lo descrive mentre deposto ai suoi piedi il pino che gli era servito da bastone,,, prese la siringa dalle cento canne… e la sua descrizione si attaglia alla perfezione alle parole di Ovidio che proprio su questi due attributi si era soffermato: c’è un colle che si allunga con la sua punta, incuneandosi nel mare… qui sale il rozzo Ciclope e siede nel mezzo… come ebbe deposto ai suoi piedi il pino che gli era servito da bastone (un pino adatto a reggere antenne di nave) prese il flauto (cento canne collegate) e tutti i monti, tutte le onde sentirono quei suoni pastorali (mi piace ricordare che l’affresco della villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase raffigura il Ciclope proprio nel modo in cui l’ha descritto Ovidio). Gay, pur sostanzialmente aderente al dettato delle Metamorfosi, aggiunge tratti ispirati alla campagna inglese: mi limito a ricordare che quando Polifemo descrive la ninfa, anziché ripetere l’ovidiano più bianca di una foglia di ligustro la vede più rossa di una ciliegia, più dolce della bacca, elogio, dice Isotta, che sembra provenire dalla bocca di un contadinello britannico. Ovidianissimo è invece l’esito della vicenda quando il giovane pastore schiacciato dal masso che Polifemo aveva lanciato su di lui: d’un tratto si erge fino a metà del ventre nell’aspetto di un giovane con due corna appena nate e inghirlandate di canne: la metamorfosi è avvenuta, Aci è divenuto un fiume.
Semele
Impossibile seguire e illustrare tutti i personaggi che il poeta di Sulmona ha consegnato alla modernità e che sono stati variamente rivissuti da librettisti e compositori: ma consentitemi di soffermarmi ancora su Semele, perché terribile è il dramma della figlia di Cadmo (la cui stirpe è segnata da lutti infiniti…). Amata da Giove (è una delle poche avventure sentimentali del dio), Semele è per questo amore e per il figlio che porta in grembo (Dioniso, come tutti sanno) detestata da Giunone che la porta alla morte con un astuto inganno: tale fosco intreccio dà il destro all’A. di mostrare la sua disinvolta capacità di muoversi fra la letteratura classica e tardo antica, dal momento che non manca di ricordare la Semele di Nonno (p. 205), tardo autore di un poema dove il mito viene reinterpretato in una visione complessa, che sembra già parlare un linguaggio barocco. Questo dominio sulle fonti lo ritroviamo nel commento all’Hercules di Haendel, dove confluiscono Sofocle ed Ovidio. Ma è a Ovidio che pensa il librettista quando illustra il dramma di Deianira: qui Isotta cita uno dei passi più intriganti della lettera della sfortunata moglie di Ercole, tradita per la bella Iole; cito da Ovidio …devo inventare in fretta qualcosa finché sono in tempo e l’altra non è ancora padrona del mio letto/ faccio una scenata o sto zitta? Me ne torno a Calidone o resto?/ Me ne vado di casa o resto a battermi per la mia causa?/ … La mente vacilla fra opposti pensieri… E’ uno di quei passi in cui ben si coglie quella capacità di penetrare nei più riposti recessi dell’animo femminile che il Sulmonese possedeva in somma misura.
Ecco, dice Isotta, Haendel e Broughton hanno saputo da un lato dar voce e musica a queste sottigliezze psicologiche dall’altro realizzare quella metamorfosi del mito che fa sì che dall’arte nasca altra arte che l’attua, l’interpreta, la trasforma, l’amplia con nuovo mito che integra nel suo corpo; e le aggiunge quegli sfondi, or di paesaggio, or psicologici, or metafisici, che solo alla musica son dati. E questa metamorfosi del mito non cessa ancora: Villaplana e il progetto di attualizzare Ovidio
Dittersdorf
Il capitolo seguente, il sesto, è dedicato a Dittersdorf, compositore e librettista, innamorato di Ovidio, come emerge da una delle lettere che scrisse al suo editore: ne sintetizzo l’incipit
Il rapimento che la lettura delle Metamorfosi dell’immortale Ovidio non ha mai cessato di produrre in me e lo studio che ne è seguito dei suoi magnifici quadri mi ha fatto venire in animo di esprimere qualche immagine creata dal divino poeta attraverso la musica…. Non mi resta quindi altro da fare che scegliere dalle metamorfosi i passaggi più adatti alle mie sinfonie. E, secondo Isotta, le sinfonie ovidiane di Dittersdorf sono il più importante tentativo di metamorfosi di poesia in linguaggio, stile e forma sinfonici fin lì compiuto.
Fetonte
Su questo aspetto l’A. si sofferma nelle pagine che seguono dedicate al “folle volo” di Fetonte che ben si presta a essere reso in musica per quel drammatico moto vorticoso del carro guidato dai cavalli imbizzarriti (ora si slanciano in alto, ora per chine e strapiombi precipitano in regioni vicine alla terra), per quel fuoco che tutto brucia (si appiccano le fiamme sulle vette, la terra si spacca, spalanca crepacci e divampa), che si scioglie nell’accorata preghiera della Terra, a cui segue il dramma finale che vede il giovane precipitare nell’Eridano grandissimo. E mi piace ricordare che l’audacia del figlio del Sole suscita nel poeta di Sulmona un moto di tenerezza, quando nell’epitaffio che egli pone sulla tomba del fanciullo scrive qui giace Fetonte, auriga nel carro del padre, a reggerlo non è riuscito, ma è caduto in un grande progetto.
Atteone
Anche Atteone (a cui sono dedicate le pagine successive, suscita pietà perché è uno dei pochi (assieme a Io e Callisto) che non perde consapevolezza della sua terribile situazione; e il dramma del giovane, imprigionato nel corpo di un animale cacciato dai suoi cani, riempie di orrore il lettore. E proprio a proposito di Atteone Isotta si concede una di quelle incursioni nel mondo dell’arte, che documentano la sua approfondita conoscenza dei diversi media che la poesia del Sulmonese ha ispirato: parte dalla ceramica attica della fine del VI secolo, in cui Atteone circondato dai suoi cani, che creano una sorta di corona attorno al suo corpo, è ancora pienamente uomo, prosegue con la stupenda metopa di Selinunte, la produzione vascolare magno greca e la pittura pompeiana, per arrivare alle celeberrime creazioni di Tiziano, che nel quadro della National Gallery si prende la libertà di allontanarsi dal testo ovidiano, associando al cacciatore, ormai preda dei suoi cani, una belligerante Diana che tende il suo arco fatale.
Perseo
Avvicinandomi alla conclusione vorrei dedicare almeno un cenno alla saga di Perseo: la scoperta della fanciulla legata alla roccia, bella come una statua e che non si sarebbe riconosciuta come umana se non dalle lacrime (Ovidio qui ha una potenza espressiva eccezionale, quando coglie l’eroe, subitamente innamorato, che giunge in volo e alla vista di Andromeda quasi si dimentica di battere le ali) ha ispirato indimenticabili opere pittoriche e musicali, non meno del combattimento con il mostro. Questo è reso nella musica di Dittersdorf con arte sopraffina, che Isotta spiega da maestro ai suoi lettori. E ancora Perseo è protagonista dello scontro mortale con Fineo e i suoi uomini, che trasforma un banchetto nuziale in una carneficina: qui l’aspetto che mi ha colpito, da ovidianista e iconologa, è il fatto che i nemici di Perseo vengono trasformati in statue dalla ostensione della testa di Medusa e la sala addobbata per le nozze si trasforma (un’altra metamorfosi!) in una sala di museo!
Aiace
Abbiamo parlato fino adesso di miti, ma anche l’epos ispira Dittersdorf, un epos che assume le sembianze dello scontro fra Aiace e Ulisse, che vede il primo soccombente, schiacciato dalla elegante facondia del secondo. Ovidio, dice Isotta, non prende posizione fra i due litiganti: è la sublime obiettività del poeta (che anche Shakespeare ha tutte le volte che mette opposti argomenti in bocca a contendenti), ma è interessante la notazione dell’A. a proposito del fatto che il Sulmonese mostra, nel descrivere Ulisse, espedienti tipici dell’avvocato, l’esitare ad occhi bassi, il pianto durante l’arringa… e una serie di allitterazioni che la traduzione non può rendere e mostrano un troppo astuto oratore. D’altronde, come dimenticare che il poeta aveva studiato a Roma presso i più illustri maestri del tempo e che aveva anche esercitato alcune magistrature minori prima di dedicarsi anima e corpo alla poesia? Il capitolo sesto chiude con la grandiosa immagine del suicidio del grande Telamonio, che, non tollerando l’onta della sconfitta ad opera di un manipolatore della parola, si uccide con la sua stessa spada (e non come suggerisce il frontespizio con quella di Achille…. Nulla sfugge all’attento Isotta!!!); e il sangue che copioso sgorga dalla ferita si trasforma nell’anemone, delicato ed effimero fiore i cui petali il vento disperde… e qui mi piacerebbe chiedere ad Ovidio (ma anche al mio dotto amico, se ha una spiegazione) cosa ha a che fare l’eroe di Salamina, secondo solo ad Achille per il coraggio e la forza fisica, con il delicato fiore che invece ben si attaglia al poco eroico Adone che al cinghiale che lo ucciderà mostra le terga. Ma forse, se il mio dotto amico non mi soccorre, resterò con la mia curiosità…
Nel capitolo Metamorfosi del mito il penultimo di questo denso saggio, l’A. illustra alcune opere che partono dalla tradizione classica ma la reinterpretano con fantasia. Basti pensare all’Apollo e Dafne del librettista Busenello che si prende grandi libertà, inserendo personaggi estranei alla trama ovidiana (come Venere artefice della vendetta su Apollo, che appartiene ad altro episodio, oppure un Cefalo innamorato di Aurora anziché inseguito e rapito da lei) ma si riallinea poi sul finale chiudendo con un ovidianissimo Pan e Syrinx. Impossibile seguire le metamorfosi degli eroi di Ovidio nel densissimo capitolo che passa in rassegna una Dafne viennese, un Ercole morente, e poi Piramo e Tisbe, Pigmalione e tanti altri.
Ovidio filosofo
Ma in chiusura di questa disordinata nota non posso esimermi dal soffermarmi brevemente sulle parole che Isotta dedica alla matrice filosofica del poema: il cantore di teneri amori usa Pitagora, il grande filosofo di Samo per tracciare un quadro della sua concezione atea e materialista, desunta dice Isotta, dal poeta da lui definito sublime e imperituro, il grande Lucrezio. Per Ovidio l’universo è eterno e increato e ciò che è apparente nascita e morte è metamorfosi. Ecco dunque che in questo universo eterno anche il poeta si è ritagliato grazie alla sua poesia uno spazio eterno; e l’ultima parola del suo poema egli la dedica a se stesso: se c’è qualcosa di vero nei presagi dei poeti, vivrò.
Dafne (D’annunio; Strauss): la metamorfosi del mito (circolarità: parte da Dafne e chiude con Dafne
Mi accorgo che non ho parlato di troppe cose: mi resta solo il tempo di accennare alla Dafne di D’Annunzio, che ama e desidera il dio e assiste sgomenta ad una trasformazione, subita e non richiesta (i versi del pescarese hanno una forza immaginifica paragonabile a quella del poeta di Sulmona: li leggo – è il momento in cui il dio l’ha, consenziente, afferrata- tenera e nuda il dio la piega e sente ch’ella resiste come se combatta. Tenera cede il seno, ma dal ventre in giuso, quasi fosse radicata, ella sta rigida ed immota in terra…. Nell’umidore del selvaggio suolo i piedi farsi radiche contorte (ricordiamo le lente radici ovidiane…) ella sente e da lor sorgere un tronco…), sorella, in un certo senso di quella di Strauss, dove pure la metamorfosi del mito è compiuta, la favola è rovesciata: non è Dafne a chiedere la sua trasformazione, ma Apollo che chiede a Giove la metamorfosi per eternare e sublimare la fanciulla.
Ma il mio tempo è veramente finito, mi resta solo da dire che tutto questo, e molto di più, è nel densissimo libro di Paolo Isotta, che ringraziamo per aver colmato, grazie alla sua dottrina e alla rara capacità di dominare saperi diversi, una grave lacuna negli studi ovidiani. Il lettore viene accompagnato dall’A. in un suggestivo percorso dove la musica ispirata ai versi del poeta di Sulmona dialoga con la letteratura classica e moderna, la storia, la storia dell’arte, perché Ovidio ha saputo essere di ispirazione a tutte le forme d’arte.
Domande:
Perché i traduttori usano sempre il termine zampogna per indicare il flauto di Pan?
La musica nei secoli: cultura o mollities?
Come sei riuscito a dominare una materia così vasta? Quale è stato il tuo metodo di lavoro? Un indice e poi lo sviluppo dei vari capitoli o ti sei lasciato andare all’estro delle tue emozioni?
Nel tuo saggio c’è un/una protagonista? Oltre alla musica, naturalmente… Forse Dafne? simbolo di metamorfosi e metamorfosi ella stessa?
Il suono degli strumenti musicali antichi: esperimento a Padova con un flauto di Pan (a 14 canne, rinvenuto a Tebtunis negli anni ’30 e datato al VI-VII sec.): un esperto di sonologia computazionale (Giovanni De Poli), ha fatto in modo che il flauto possa venire suonato virtualmente restituendo voce e melodia alle antiche canne rimaste mute per centinaio di anni.
E concludo veramente con una notazione: i protagonisti di questo saggio sono, ovviamente, Ovidio e la musica, ma i co protagonisti sono tantissimi: le corti rinascimentali, la grande letteratura, classica e moderna, la pittura barocca, Virgilio, Nonno di Panopoli, il paesaggio, quello ovidiano e quello inglese…
Un’ultima riflessione sul metodo che l’A. adotta in tutto il libro: mito per mito passa in rassegna le fonti classiche precedenti ad Ovidio (nella prospettiva di sottolineare che cosa il Sulmonese riceve dalla grande letteratura a lui precedente e dove, invece, innova) e poi passa ad estrarre dal testo ovidiano ciò che lo rende unico (spesso presentato in italiano con il testo latino in nota) al fine di illustrare il peso che egli ebbe nella recezione moderna; senza trascurare l’influsso che su certe rielaborazioni ha avuto un grande come Nonno di Panopoli, altro straordinario affrescatore di miti.
Personaggi che il cantore di Sulmona ha reso eterni e hanno ispirato in vari modi pittori, scultori, arazzieri, incisori e, appunto, musicisti e librettisti che li hanno rivissuti e riconsegnati al pubblico contribuendo a fissarli per sempre nella memoria collettiva.
*Professore ordinario di Archeologia Classica all’Università di Padova, curatrice della mostra “Ovidio. Amori, miti e altre storie” alle Scuderie del Quirinale a Roma.