Nemo propheta in patria, si dice. E’ vero. D’altronde Bertolt Brecht disdegnava la patria con gli eroi. Profeta no: ma istrione? Nemmeno. L’istrione, invece, è graditissimo in patria. Coccolato. Applaudito. Molto applaudito. Forse, è per questa inconfutabile ragione che il trionfo in patria è meglio. Il fatto è accaduto lo scorso sabato a Siracusa con la messinscena di “Iliade, da Omero a Omero” di e per la regia di Monica Centanni e con Sebastiano Lo Monaco, attore noto della scena teatrale italiana, notissimo nella sua Siracusa (è nativo di Floridia ma siracusano di molta adozione), a far da corpo in scena. Una performance che ammiccava all’attore mattatore, fino al malizioso omaggio a Vittorio Gassman a fine spettacolo per salutare i suoi (viene voglia di sottolineare l’aggettivo) spettatori.
Armato di un unico oggetto di scena, una sciarpa di trasparente seta bianca, Lo Monaco crea una scenografia essenziale e laterale (nel senso di fermo nello stesso lato del palcoscenico) e rappresenta i personaggi femminili del racconto epico. La sciarpa, più del cavalluccio rosso di Riccardo Pazzaglia in “Così parlò Bellavista” e meno del fazzoletto di Ettore Petrolini in “Gastone” l’attore fotogenico, dà appunto fotogenia all’assenza del movimento scenico e aiuta la ieratica apparizione di un attore, che non rinuncia nemmeno in quest’occasione a caricare di enfasi tragica il testo, a contorcere la parte alta del corpo e il viso all’imitazione del dolore trattando, come il suo amato Edipo, Ettore, Achille, Priamo, Ifigenia, Odisseo, Elena e Omero.
Eroi epici, che del tragico hanno solo il Fato e la maledizione di un’esistenza d’inappartenenza emotiva, se non quella contesa da Ares e Venere. Sono personaggi da racconto, quelli di “Iliade, da Omero a Omero”, che rischiano di diventare improbabili se si lamentano come prefiche o allungano esageratamente le vocali del loro destino di pianto, sconfitta, morte, amara vittoria. La regia inchioda l’attore davanti a un irrinunciabile (o miracoloso) leggio -c’è stato il brivido del foglio caduto a terra e raccolto con elegante gesto da Lo Monaco- e lascia la scena vuota dell’attore personaggio ma con i musicisti (mirabile il Quartetto Aretuseo, ossia Corrado Genovese e Christian Bianca ai violini, Matteo Blundo alla viola e Stefania Cannata al violoncello, diretto dal compositore Dario Arcidiacono) in fondo ad accompagnare le frasi del testo con il loro fraseggio musicale. Tutto qui. C’era pure una sedia da cui c’è stato, almeno, un sali e scendi. Essenzialità che diventa staticità, la lettura fa dello spettacolo monotonia e della parola un monocordo. Se la regia non convince (la guerra è mobile e qui chiedeva di muoversi in scena), il testo di Centanni è un’interessante riscrittura del poema omerico. Lei stessa cuce gli episodi fondamentali di “Iliade, da Omero a Omero”, facendone una sintesi garbata e rispettosa dell’intreccio (dall’ira di Achille all’inganno del cavallo, con i flashback dell’amore di Elena e del sacrificio di Ifigenia, dal bottino delle donne fino alla supplica di Priamo per riavere il cadavere di Ettore), e da filologa e grecista insigne si permette di lasciare sospesa la domanda se la sofferenza degli uomini sia dovuta ad Ares o ad Afrodite, e si concede felici citazioni da Eschilo (l’episodio di Ifigenia), da Lucrezio (l’amplesso di Marte e Venere), dagli epici latini, Virgilio su tutti citato con l’arcaico “dona ferentis” che vale tutto il testo. La restituzione del calviniano rumore di fondo si limita all’apertura e chiusura del testo con l’affermazione che nel primo poema della storia d’Occidente “poema di guerra e di strage, la parola barbaro non compare mai”, e alla domanda “ Perché cantare ancora quella guerra? Non ci sono altre guerre?”. L’inizio della pièce è molto suggestivo, con l’intercalare vario dell’incipit “Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira”, di versi in greco e delle formule in lingua greca con cui Elena fu detta colpevole di tutte le sciagure: Elenaùs, Elena rovina delle navi, Eleandròs, Elena rovina dei guerrieri, Eleptolis, Elena rovina delle città. Poi il testo scorre nel racconto ma non azzarda letture inusitate, non arriva a turbare, non più o non diversamente da quanto il turbamento di quella storia di dei e di eroi abbia, nella sua stessa grandezza, turbato i secoli degli uomini. Lo spettacolo ha debuttato nel lontano 2010, è andato in scena fino allo scorso anno e ha avuto un bel momento in un’alba al Tempio di Agrigento.
A Siracusa ha aperto, in data unica, la prima stagione teatrale dal 1956. Una stagione voluta dall’amministrazione comunale – manca un direttore artistico e chissà se ieri sera un’idea è venuta fuori- e in particolare da Fabio Granata, assessore alle Politiche per la valorizzazione del territorio e lo sviluppo culturale. E’ un bel cartellone con un tema guida “Variazioni sul mito”, che vedrà fino ad aprile calcare il palcoscenico siracusano registi, attori e autori di grande livello, tra i tanti Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale, Roberto Alajmo, Valeria Contadino, Gaia Aprea, Vincenzo Pirrotta, Galatea Ranzi, Salvo Piparo, Roberta Caronia, Giovanni Anfuso, Manuel Giliberti, Davide Coco, Mariano Rigillo. Portare il mito al Teatro Comunale (che Lo Monaco ha chiesto di intitolare al grande Salvo Randone) vuol dire porsi in continuità con il teatro classico, allestire una stagione teatrale e un cartellone moderno e vario che dialoga con quella tradizione. Vuol dire fare di Siracusa città del teatro per eccellenza. Non è il teatro che torna a vivere ma è la città che torna a vivere con il suo teatro, come sapeva benissimo quell’accorto di Pericle. Iniziare con “Iliade, da Omero a Omero” è stata una scelta coerente, nonostante lo spettacolo convinca poco. Restano gli applausi generosi al generoso concittadino in scena. E restano le ceneri di Ilio, che l’altra sera non fumavano affatto.
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