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Incredibile come tutta la questione meridionale – ma già dal 1861, dall’Unità d’Italia – sia ferma alla fulminante battuta di Leo Longanesi: “Per quel che mi riguarda il problema del Mezzogiorno l’ho risolto, io mangio all’una”.
“Sciogliere i nodi del Sud” è il titolo dell’editoriale di ieri, sul Corriere della Sera, di Angelo Panebianco.
E’ più una necessità che un auspicio se il percorso indicato dall’autorevole scienziato della politica, quello da sempre atteso – “…riuscire, prima o poi, a unificare economicamente e socialmente il Paese” – inciampa sulla cruda realtà dei fatti: quel che s’è realizzato in Germania, con la riunificazione dopo la caduta del Muro di Berlino, pur con un prezzo pagato in termini di euro da tutta Europa, in Italia è ancora una chimera.
Due velocità, due patrie da sempre separate e non sarà la politica nazionale – sostiene Panebianco – a fare qualcosa di buono per il Sud.
Non ci sarà – non c’è mai stato, a eccezione delle trincee del Carso e della Marcia su Roma – una saldatura tra i due territori, e l’Italia contemporanea comunque non ha avuto un Helmut Kohl capace di realizzare un progetto simile.
Tutto è difficile – tutto è nel nodo – e nulla cambierà. Non c’è traccia, argomenta ancora Panebianco, di un soggetto politico in grado di affrontare il “più antico e persistente dei problemi italiani”.
E la soluzione, fuori da ogni rivendicazionismo – da qualunque retorica del risarcimento – è far da sé: “È solo dalla società meridionale che un giorno”, scrive Panebianco, “potrebbe partire un movimento capace di mettere in moto lo sviluppo (sia pure con tutta l’attenzione del caso alle specificità della società meridionale) e di prendere le distanze da una interpretazione rancorosa del passato e del presente”.
Tutto è però più facile – tutto s’è sciolto – e ogni cosa è cambiata. Il 4 marzo scorso, infatti, tutto quel Sud, un movimento – una presa di distanza dal passato – l’ha di fatto realizzato: per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana l’intero Mezzogiorno non ha votato per i partiti di sistema. Si sono squagliati, come sugna nelle fogne, i vecchi potentati clientelari e i soprastanti dei comitati d’affari.
La traccia dunque c’è, il laboratorio è più che approntato, il M5S ha fatto strike in termini di consenso elettorale e il “motore di ciò che di buono” porta il Sud non può prescindere – malgrado il pessimismo espresso da Panebianco – da una decisione così “sovrana” come quella di dismettere il granaio elettorale altrui, sempre e soltanto di “sistema”: un tempo quello della Dc, quindi il Centrodestra e poi – nei suoi esiti più trasformisti – il Pd, con i candidati interscambiabili, ed era la norma, con Forza Italia.
L’unico Sud possibile, dunque, non può che cominciare dall’indomani del 4 marzo.
E non è certo “stanca riproposizione di statalismo e assistenzialismo”. Piuttosto è politica. Magari ingenua, pasticciona, raffazzonata come una piscina smontabile e comunque è politica.
Con un’interpretazione tutta di buona volontà per il presente. E per il futuro. L’unico Sud possibile. (da Il Tempo del 6 dicembre 2018)
Ma la politica al Sud è proprio, sempre e comunque, “riproposizione di statalismo ed assistenzialismo”. Un contagio infernale, per il male di tutti. Per mai risolvere nulla, anzi, aggravando tutti i problemi.
Il Sud non ha alcuna speranza. Malato terminale. Trascinerà con sé nella rovina il resto d’Italia.