Viaggio indietro nel tempo, L’ultimo di noi di Adélaïde de Clermont-Tonnerre – premio Acqui Storia per la narrativa, dopo aver vinto il Grand Prix de l’Académie française – oppone due famiglie tra 1945 e 1978. Ovvero tra quando la preponderanza militare altrui, non la superiorità morale, ha schiacciato l’Asse; e quando la rivoluzione sociale è naufragata nella rivoluzione sessuale.
Nel suo ultimo scorcio, il ‘900 non smette di essere un secolo di ferro solo perché ci sono i grandi concerti rock: si può cantare di tutto, ma solo perché non serve a niente (salvo a vendere dischi). Uno slogan d’allora recita: “Pace, amore, libertà”. Il primo punto resta sinonimo di tregua, il terzo sinonimo d’illusione; quanto al secondo, illude molti, tocca a pochi e, soprattutto, quasi mai l’amore non ha un prezzo di sottomissione. In sintesi, “sarò tua, ma solo se tu mi obbedirai”.
L’ultimo di noi è romanzo romantico, ma consapevole delle conseguenze dell’amore. E anche il romanzo americano di una giornalista francese, capace di affidare il ruolo che in una tragedia greca ha il coro a grandi figure d’epoca: Werner von Braun, ideatore delle V2 per Hitler e dei missili per l’impresa lunare della Nasa tra le presidenze di Truman e Nixon; Donald Trump, costruttore newyorkese, ancora ignaro di un futuro alla Casa Bianca; Bob Dylan e Joan Baez, per un po’ anche coppia nella vita oltre che sulla scena; Andy Warhol con la sua Factory. Se non appare Frank Sinatra, echeggia una sua canzone: I’ve Got Under My Skin.
Werner – lui l’ultimo di noi – è un tedesco che non ha colpe: mentre la madre muore, nasce tra le macerie di Dresda bombardata e incendiata dagli aerei anglo-americani nel febbraio 1945, quando le truppe sovietiche erano ormai nelle vicinanze e la distruzione della città d’arte per eccellenza della Germania era una dimostrazione di forza che, uccidendo decine di migliaia di tedeschi, voleva intimorire milioni di russi).
A guerra finita, Werner viene adottato da una famiglia statunitense, i Goodman. Nel 1969 dello sbarco sulla Luna e del concerto di Woodstock, oltre che della guerra in Indocina, Wernerè un giovane rampante a New York City. Qui incontra Rebecca equi nasce un amore diseguale, perché lei è ricca e lui non ancora. Peggio, sebbene Werner lo ignori, è figlio di uno scienziato del gruppo di von Braun. Viene dunque da un Paese che vince le battaglie e perde le guerre, quando Rebecca ha una madre che ha sofferto la prigionia ed è sopravvissuta prostituendosi ai carcerieri: per lei Werner non è un possibile genero, troppo somiglia a un tedesco al quale lei deve sopravvivenza e umiliazione insieme.
Quanti romanzi degli ultimi decenni sono cominciati così? Chi ne ha letti o visti alcuni, dirà: ancora una miscela di Dossier Odessa di Frederick Forsyth e del Maratoneta di William Goldman, della Scelta di Sophie di William Styron e di Rakie di Lavr Divomlikoff (anagramma di Vladimir Volkoff)… I fatti di allora, sì, sono sempre quelli, ma l’interpretazione no: i prevedibili “buoni” non lo sono poi tanto; gli scontati “cattivi” non lo sono per niente.
*Adélaïde de Clermont-Tonnerre, L’ultimo di noi, trad. di Margherita Belardetti, pagg. 381, Sperling & Kupfer, euro 18,90