La storia dovrebbe essere costituita da progetti da realizzare, da concretizzare: a un’ideazione, a una certa aspirazione politica, segue un’azione che gli darà corpo. Il Lorenzaccio di Carmelo Bene, appartenente al ramo filo-popolare dei Medici, deve uccidere il suo parente Alessandro, signore-tiranno a Firenze di un regime aristocratico. La realizzazione dell’ideale repubblicano, l’instaurazione di uno stato di diritto (o comunque di qualcosa che politicamente gli si avvicina) è il movente che spinge Lorenzaccio a compiere il tirannicidio, ovvero il gesto della pugnalata che rivolgerà ad Alessandro.
Ma affinché il suddetto gesto riesca nel suo intento, la progettualità (l’ideale che lo spinge) deve venire del tutto dimenticata nella pura esecuzione delittuosa dell’affondo della lama: l’atto – in tal caso, dunque, omicida – per riuscire, per non fallire, non deve neanche minimamente curarsi del beneficio politico che arrecherà al popolo fiorentino (o comunque alla maggior parte di esso). L’atto, il gesto, è allora del tutto gratuito, è fine a se stesso, è compiuto per il solo intento di compierlo. Nella mentalità dell’atto – ovvero di chi agisce davvero – vi è piena equivalenza tra l’uccidere senza motivo un poveraccio e l’eliminare (mettiamo) Nerone.
Ma anche ogni più blando e incruento atto politico viene svolto con un’analoga gratuità: anche operare una riforma risulta qualcosa di ulteriormente – e quindi di completamente – insensato in quanto al mondo non esisterebbe nulla. Non essendoci un molteplice di cose (non esistendo quindi delle differenze), un passato, un futuro (tutto ciò ce lo immaginiamo) e altro ancora, nulla può mutare di una condizione esistenziale in cui è il dolore assoluto a farla da padrone: a farla da padrone in quel solo e unico istante che costituisce l’effettiva durata del nostro infelice vivere.
È allora in errore chi, ad esempio, interpreta la storia come un continuo e graduale progredire, evoluzione che – per giunta – verrebbe man mano edificata da una serie di motivazioni: “Lorenzaccio si sottrae all’azione. A qualunque disamina storica” (ad esempio, di tipo progressista. Vedremo come l’azione sia, rispetto all’atto, ciò che consegue logicamente da un motivo. La citazione che ho appena riportato e tutte quelle che seguiranno sono tratte da una lunga intervista biografica che Giancarlo Dotto fece a Carmelo Bene. Il libro in questione è Vita di Carmelo Bene, edito da Bompiani).
Le due citazioni seguenti sono tratte da uno scritto di Bene (riportato ovviamente nella suddetta biografia): “la Storia […] è […] un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall’incoscienza dei rispettivi attori (perché si dia un’azione è necessario un vuoto della memoria)”. A proposito di Lorenzaccio e dei congiurati in genere, Bene afferma: “Certosini nel lavorio paziente del lucidar la trama dei preparativi, cauti, meticolosi, febbrili dell’angoscia inconfessabile dell’insonnia dell’esserci – onnipresenza inumana intollerabile del sé a se stesso –, precipitarono nell’attimo tutta una vita pensosa: il gesto. E non furono più. Per un attimo. Estromessi dalla godibilità del vuoto dalla felicità sempre invivibile; per svegliarsi subito dopo, nuovamente sovreccitati e infelici”.
Maurizio Grande scrive (è l’estratto di un suo libro): “Esiste una grandezza del gesto clamoroso di cui ci sfuggano le conseguenze?”. Prosegue parlando della “gratuità” del gesto, ovvero della sua “rinuncia ad inscriversi in un progetto quale che sia, e, soprattutto, a rendersi responsabile della modificazione della situazione, rivendicando per sé solo il momento dell’atto”. Carmelo Bene, chiosando tali ultime parole, afferma: “Nessun’azione può realizzare il suo scopo, se non si smarrisce nell’atto. L’atto, a sua volta, per compiersi in quanto evento immediato, deve dimenticare la finalità dell’azione”.
Ma il grande attore salentino non credo guardasse con favore agli atti criminosi. Ritengo vi abbia fatto riferimento per esemplificare la storia dell’umanità, in modo tale da criticare – in primo luogo – ogni storicismo.
Bene apprezzava piuttosto i gesti ludici, poiché – fra l’altro – in essi gli uomini (spettatori e atleti) appaiono sempre conciliati, pacificati gli uni con gli altri.
Un calciatore tenta una giocata assai difficoltosa per ottenere il più clamoroso plauso da parte del pubblico. Ciò cui mira è dunque che esso lo stimi nel modo più alto. Nel momento in cui pensa alla giocata da campione da dover effettuare è un’io, ovvero qualcuno che, contraddicendo il divenire, ritiene di essere sempre qualcosa di identico nel trascorrere del tempo (quando invece ad ogni istante risorgiamo diversi rispetto a ciò che eravamo in precedenza). Ma l’io non può prescindere inoltre dall’idea della sua diversità, della sua differenza, rispetto ad altro e ad altri, il che – ancora una volta – è un’idea erronea.
Ma una peculiarità del fuoriclasse è quella di dar pochissimo peso a questo suo credersi un’io nel momento del pensiero del gesto atletico che dovrà tentare di compiere: si guarda d’intorno e guarda soprattutto dinanzi a sé (in direzione dei suoi avversari) fulmineamente, pensando tempestivamente alla giocata che dovrà andare ad eseguire. Può essere un bel dribbling, un assist vincente, un gol.
Al momento, nella fase, di eseguire quanto ha escogitato, dovrà però dimenticarsi completamente di sé in quanto ‘io’: per rimanere concentrato a pieno durante l’esecuzione dell’atto non deve pensare alla sua vanità, né tantomeno – addirittura – al fatto che la sua giocata avvantaggerà la sua squadra (favorendone la vittoria). L’atto del calciatore sarà allora qualcosa di assolutamente gratuito. E non sarà l’ ‘io’ a svolgerlo.
Eseguendo l’atto vi è tuttavia ancora un soggetto e un oggetto (sono termini complementari, ovvero imprescindibili l’uno dall’altro: il primo dei due è chi patisce qualcosa che, da soggetto, esperisce): deve ricordarsi di ciò che ha progettato di compiere (usa la memoria), usa ovviamente almeno alcuni dei suoi sensi (rivolti al presente), deve poter immaginare il futuro (in quanto gli si fa incontro un difensore che tenta di smarcarlo). Ma – soprattutto – deve dar sfogo alla sua tensione fisica, che adesso è l’unico movente che gli intima di muoversi, di giocare. Svolto l’atto (ha dribblato il difensore o i difensori, ha prodotto un assist cui è seguito un gol, ha tirato in porta andando a segno), ha scaricato tutta la sua energia: in quel momento contempla freddamente, non facendo nient’altro. È assolutamente felice: l’atto – parlandone nel senso più proprio – caratterizzerebbe soltanto tale punto temporale. Muore per un istante. Non ha di fronte – propriamente parlando – un oggetto, in quanto non avverte alcunché. Ma, mancando l’oggetto, manca anche il soggetto (si è detto infatti come tali due nozioni siano tra loro complementari).
Ma anche il pubblico ha goduto freddamente, felicemente, dell’atto, a partire magari dal momento dell’occhiata fulminea del calciatore fino al punto in cui ha (ad esempio) realizzato un gran gol. Qualcosa, quanto più è singolare e inaudito, tanto più è bello a contemplarsi. Nell’anzidetto lasso di tempo, passato, presente, futuro, il movimento del giocatore annesso alla tridimensionalità del tempo, in realtà non c’erano: quel periodo era l’istante, l’attimo, la morte, ovvero l’essere, la pienezza esistenziale, la sensatezza, la vera vita. In quell’attimo, l’esistenza assolutamente vuota, bramosa – ovvero dolorosa – di ogni spettatore (che è nulla, che è come morto) viene meno.
Chi, al contrario del campione calcistico di cui sto parlando, realizza un’azione e non un atto, è chi permane un’io vanesio – e quindi timoroso del giudizio altrui nei suoi confronti – dall’inizio alla fine del suo gesto sportivo (pensata del gesto inclusa). Ma allora l’azione – rispetto all’atto – è destinata a fallire, o comunque a non riuscire al meglio. Il giocatore che ‘agisce’ fa infatti dei pensieri che gli impediscono di essere lucido e altamente concentrato nel corso dell’intero svolgimento della sua giocata. L’azione, rispetto all’atto, è quindi interamente contaminata dalla conoscenza, dal pensiero.
Infine, anche il virtuosismo và rifiutato: il ‘virtuoso’ è colui che, ad esempio, svolge un intero pezzo musicale, strumentale, costantemente interessato a fare in modo che il pubblico che ha di fronte lo apprezzi, gradendo la sua esecuzione.
Molto intelligente ed esaustiva la metafora calcistica, utilizzata del resto anche dallo stesso C.B. “Nel momento in cui pensa alla giocata da campione da dover effettuare è un’io, ovvero qualcuno che, contraddicendo il divenire, ritiene di essere sempre qualcosa di identico nel trascorrere del tempo (quando invece ad ogni istante risorgiamo diversi rispetto a ciò che eravamo in precedenza)”. Vorrei solo esprimere alcune riflessioni personali inerenti alla differenza che intercorre fra “io” e “personalità”. Quest’ultima si riferisce a quella sovrastruttura identitaria e mutevole che viene a costituirsi a partire dal vissuto, dall’esperienza, dall’ambiente socio culturale ed educazionale nel quale l’individuo nasce, cresce e si evolve. L’Io, al contrario, è quella parte nascosta, sconosciuta, di cui nessuno è consapevole se non dopo lunghi percorsi di conoscenza e consapevolezza o in profondi stati meditativi. Si tratta del nostro vero e reale Essere, del nostro autentico desiderio. L’Io è ciò che è e non muta, non cambia e non si evolve. E’ sostanza e non forma. I mutamenti sono possibili proprio perché esistono principi eterni ed immutevoli. La personalità è la maschera, la forma e per questo risulta soggetta a cambiamenti. Quello che cambia in noi non è l’io ma la personalità, un surrogato posticcio della nostra vera identità. L’io, in effetti, rimane identico nell’evoluzione temporale, quest’ultima nell’Aion è inesistente in quanto il tempo è immediato svanire, (il tempo non esiste) e, in realtà, non risorgiamo diversi a ciò che eravamo in precedenza. Anche senza una disamina ferrea fra Atto e Azione è sufficiente l’annullamento del concetto di Tempo, (senza scomodare la Fisica… disse C.B) per cogliere appieno il conseguente e logico anti storicismo, la negazione del progressismo evolutivo e del protagonismo umano nell’agire. E’ in questa realtà altra che si cela il Buio del Teatro ovvero il Vuoto assoluto dell’Arte.