Sembra il Marcellino Fonte protagonista di “Dogman” – il film di Matteo Garrone – Maurizio Maggiani che scrive “L’amore”, (Feltrinelli). Lo stridulo pronunciare della parola “ammore” con artificiosità dell’attore, qui diventa pagina di romanzo. Fin dall’incipit – “È notte, ci sono due sposi” – Maggiani cerca una formula anonima che possa includere, i protagonisti rimangono lo sposo e la sposa, mentre lui ne ripercorre la formazione sentimentale. L’effetto è una storia vecchia, in una lingua vecchia, quella di un romanzo di fisime e desideri, di nostalgia ed enorme noia. Dove la parola amore è inseguita, e il suo profondo significato – seppur indagato in molte forme – rimane lontano, perché avvolto da un affollato e irritante numero di episodi che non sono mai semplice racconto, ma hanno dietro la dottrina politica o peggio la strizzata d’occhio alla civiltà contadina da Circolo Pickwick della pummarola, dove la vocazione pedagogica prevale sull’irrazionale dell’istinto che – a quanto ci risulta – governa l’amore. Lo sposo – una serie di foto della sposa urinante nel suo studio – lavora l’orto, scrive, si occupa di zinco e “ruba le giuggiole dal cestino della sua sposa e prova il gioco del giocoliere”; la sposa, invece, inforna il pane e si muove leggiadra tra desideri e riverberi di donne che l’hanno preceduta. Più crinali e argille che cosce, un soft-porno bucolico dell’Est pre-muro. Philip Roth non andava in bici, non raccontava “fatterelli” né rimpiangeva mangianastri, per questo è riuscito dove Maggiani fallisce.