Viviamo anni difficili. Lo stato attuale delle cose viene interpretato dai rappresentanti della cultura ufficiale come insuperabile. Del resto, di che lamentarsi? Viviamo nel migliore dei mondi possibili. La democrazia liberale, pur in crisi, si sostiene, rappresenta comunque il più efficace sistema su piazza, garantisce libertà di espressione a tutti. Inoltre, il modo di produrre capitalistico ha fatto uscire definitivamente l’uomo occidentale dall’atavico pauperismo in cui è vissuto per millenni. Certo, la macchina produttiva è andata incontro a qualche incidente di percorso, ma dalla crisi stiamo uscendo e, di fronte a noi, non c’è altra via da percorrere. La storia è finita, pertanto, non è il caso di agitarsi pensando a progetti politici e culturali alternativi. In questi giorni, nel leggere la nuova edizione del libro di Oswald Spengler, Anni della decisione, comparso nel catalogo della OAKS editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, euro 12,00), abbiamo incontrato una visione delle cose decisamente contrastante con i luoghi comuni sopra riportati.
Sappia il lettore che il volume fu scritto dallo studioso tedesco quando venne chiamato a far parte dell’Accademia di Germania. La richiesta fu, in qualche modo, una sorpresa per Spengler. Questi, come ricorda nell’informata Prefazione Gennaro Malgieri, pur avendo votato nel 1932 per Hitler, aveva già maturato un giudizio del tutto negativo sul Führer. Aveva rifiutato l’invito rivoltogli da Joseph Goebbles, e sottoscritto da Elisabeth, sorella di Nietzsche, a tenere, sotto le insegne nazionalsocialiste, una conferenza alla gioventù tedesca. In più di una circostanza, aveva espresso la propria distanza dal razzismo biologico e dall’antisemitismo alla Rosenberg. Dopo questi episodi e in seguito alla chiamata ricordata, scrisse Anni della decisione che, inutile dirlo, venne accolto malissimo negli ambienti afferenti al partito. Al contrario, e la cosa ci sembra di assoluto rilievo, il testo colpì in Italia Mussolini, che ne parlò sulle colonne del Popolo d’Italia e ne commissionò la traduzione al germanista Vittorio Beonio Brocchieri. Anton M. Koktanek, in una monografia dedicata a Spengler alla fine degli anni Sessanta, definì il libro che presentiamo: “l’unico manifesto dell’opposizione conservatrice interna apparso durante il Terzo Reich” (p. 21).
Tale definizione dell’opera di Spengler è certamente convincente: le sue pagine contengono una serrata critica della modernità ed il nazismo è letto come un fenomeno politico ad essa interno, o quale sua estrema degenerazione. Le posizioni dell’autore, va detto con chiarezza, sono sintoniche a quelle espresse da altri esponenti della Rivoluzione conservatrice e, con Anni della decisione, Spengler seguì la via di Gottfried Benn, la ‘migrazione interna’, nonostante il libro avesse venduto, in pochi mesi, centomila copie. Gli ultimi anni dell’autore del Tramonto furono caratterizzati dallo solitudine esistenziale. Pensare che ancora nel 1924, egli aveva provato ad influenzare il tentativo nazional-conservatore messo in atto dal generale della Reichswehr, Hans von Seeckt che, però, non ebbe successo. Nel 1931 aveva dato alle stampe L’uomo e la tecnica, testo dal quale si evince una straordinaria consonanza con la lettura heideggeriana del Gestell, dell’Impianto della tecno-scienza e del suo possibile dominio planetario. Trascorse gli ultimi anni a Monaco, dedicandosi alla lettura e all’ascolto della musica di Beethoven. Qualcuno sostiene che la crisi cardiaca che lo portò alla morte sia stata provocata dalle intemperanze, messe in atto nei suoi confronti, dal filosofo Alfred Baeumler. Spengler, infatti, era cosciente della brutalità con la quale il regime si era sbarazzato degli oppositori del fronte conservatore, da Edgar Jung a von Kahr.
Anni della decisione è un crocevia della biografia spirituale spengleriana. Un testo dalla grande forza evocativa, anche sotto il profilo linguistico, che registra le preoccupazioni dell’autore sui destini dell’umanità. L’ordine europeo appariva minato alle basi dalla Rivoluzione mondiale bianca, che aveva sovvertito, fin dagli eventi del 1789, gli istituti politici tradizionali e che, dopo la fine della Grande Guerra, era accompagnata nel suo procedere eversivo, dall’affermarsi dalla Rivoluzione mondiale degli uomini di colore. All’orizzonte uno spettacolo tragico, il sommarsi della lotta di classe alla lotta di razze “sarà la più grande crisi, contro la quale i popoli bianchi dovranno procedere di comune accordo, se vogliono ancora avere un avvenire” (p. 23). Egli sperava che i nuovi Cesari potessero contribuire positivamente a tale battaglia. Per vincere sarebbe stato necessario sconfiggere la cultura di senso comune, allora come oggi dominante l’occidente: l’utopismo, il suo irrealismo, e la religione delle lacrime. Finora ciò non è avvenuto, anzi, sono giunti i tempi in cui “non il divenire forti in vista di un compito, bensì la felicità dei più, il benessere e la comodità, il panem et circenses, costituiscono il senso della vita” (pp. 14-15).
Come Julius Evola mise in evidenza nella Prefazione alla prima edizione, opportunamente conservata anche in questa seconda, vi è divergenza netta tra le posizioni di determinismo storico-morfologico espresse dal tedesco nel Tramonto e l’invito all’azione che è contenuto nelle pagine di Anni della decisione. Il pensatore romano legge il secondo Spengler, quale assertore di ciò che in Rivolta egli chiamò il ciclo eroico. Il tradizionalista diffida del cesarismo, espressione di un potere desacralizzato che ha in sé i mali che vorrebbe correggere nella decadente società europea, ma valorizza lo ‘spirito prussiano’, tratto tipico, come il morfologo della storia aveva compreso, non dei soli tedeschi, ma dell’uomo europeo. Tale atteggiamento rinvia ad un ordine interiore che guarda all’alto, all’ Impero interiore. Quando Evola scrisse le pagine introduttive ad Anni della decisione, il riferimento alla Prussia aveva solo valore ideale. Quella realtà politico-sociale era stata smembrata, non esisteva più “Perciò non si vede quale possa essere il soggetto che prenda decisioni nella spengleriana ora della decisione” (pp. 31-32).
Alcuni oggi ritengono di vedere nella Russia di Putin un nuovo soggetto tradizionale sul quale fare affidamento per riprendere la battaglia. Tra questi Alexander Dugin che, non casualmente, tenta di coniugare le posizioni evoliane con quelle di Heidegger. Solo il tempo potrà dirci se il filosofo russo ha colto nel segno.