«In principio era il Verbo…». No, non siete in chiesa né davanti un accesso di delirio mistico…ma stiamo semplicemente enunciando una verità talmente logica (appunto!) da esser stata totalmente obliata dalla società occidentale almeno dal romanticismo in poi. Ratzinger, a suo tempo, durante l’epocale discorso di Ratisbona ci provò (col senno di poi, evidentemente con scarsi risultati!) citando proprio l’incipit del Vangelo di Giovanni, specificando come: «In principio era il Verbo o il lògos» stesse a significare che Dio ha fatto il mondo e lo mantiene secondo una legge di ragione, e che perciò agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, rimarcando altresì la profonda concordanza tra «ciò che è greco nel senso migliore» – dunque realmente occidentale – e «ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia». «Vox clamantis in deserto!» (anche se questo era l’altro San Giovanni), e difatti ci ritroviamo Papa Francesco che più che con quello di Crisippo ed Epitteto ha dimestichezza col “pensiero” di Eugenio Scalfari,
Molti sono i miti cosmogonici, anche d’Oriente, che riconducono la creazione del mondo a un suono o vibrazione, che, dissipato il caos primordiale, avrebbe dato forma ad ogni cosa: dalle galassie ai sistemi stellari, agli esseri viventi. L’Aum, ad esempio, spesso traslitterato come Om, che troviamo pronunciato in gran parte dei mantram della cultura yogica – ahinoi sempre più spesso utilizzato in contesti di poco spessore, in quanto più o meno dall’invasione inglese dell’India, sono fioccate in Occidente interpretazioni della tradizione indiana tra le più strampalate, sino a giungere alla moderna New age – non rappresenta che la vibrazione iniziale, il primo «suono» matrice di tutte le cose. Così pure fra gli zoroastriani ben nota era la nozione spesso citata nei Gata, il loro testo sacro, di una legge cosmica di armonia e giustizia chiamata Aša. E agli stessi Faraoni d’Egitto pare fosse attribuito il compito di sorvegliare su una misteriosa legge di armonia e giustizia denominata Maat.
Come si può capire, la storia della civiltà pare essere stata sempre la storia della lotta dell’ordine contro il caos; in India si direbbe di dharma contro a-dharma, ancor più e ancor prima della lotta del «bene» contro il «male». Gli stessi miti parlano di questa acerrima tenzone: la nostra classicità con Apollo che, di ritorno dagli Iperborei, col suo «chirurgico» sguardo annienta il serpente Pitone, l’India con Indra che uccide il drago Vṛtra col vajira (simbolo di discriminazione); l’Egitto con la lotta tra Horo, il dio col quale si identificava lo stesso Faraone, e Seth; e Babilonia con la vicenda di Marduk, il «re degli dèi», e il primordiale serpente-drago marino Tiāmat. In ambito cristiano abbiamo la lotta tra San Giorgio e il Drago, e anche se il culto di questo santo paladino della giustizia e dell’ordine (dunque del lògos contro il caos) ha subìto alterne vicende, fra cui l’estromissione dal calendario gregoriano, l’immagine di questo indomito cavaliere della cristianità, campeggia ancora sulla bandiera della Russia post-sovietica. E, crediamo, ci sia una ragione anche per questo…
La stessa politica, del resto, sin dall’antichità, fu concepita come la riproposizione sociale della lotta cosmica fra «kósmos» e «cháos». Fu Spengler ad individuare il compito della civiltà in una «lotta intima e appassionata per l’affermazione dell’idea contro le potenze del caos all’esterno, così come contro l’inconscio all’interno, ove tali potenze si ritirano irate». Si pensi a ciò che ha significato e tuttora significa il concetto teologico-politico di Impero per la storia dell’Occidente, concetto che vede in una istituzione politica un ruolo provvidenziale nell’esercitare e mantenere una situazione di equilibrio in un determinato spazio geografico-sociale, con l’obiettivo di regolare i rapporti tra nazioni, popoli ed etnie che lo costituiscono. Uno degli episodi connessi alla funzione provvidenzialmente ordinatrice e rettrice – Carl Schmitt parlerebbe di una funzione di katéchon – attribuita all’istituzione imperiale è quello che vede l’erezione di una muraglia da parte di Alessandro Magno, per sbarrare la strada alle genti di Gog e Magog, epitomi di caos e disordine. Mentre, a Roma, nella persona di Augusto fu vista la figura del restitutore dell’ordine primigenio, in quanto con la sua opera di riconciliazione fra uomini e cosmo (pax deorum hominumque) aveva rettificato l’azione titanica ma al contempo eroica di Cesare, che osò violare in armi il pomerium dell’Urbe, rappresentante al contempo il limite datore di forma della civiltà romana (limes) e addirittura lo stesso ordine cosmico (mundus), con l’intento di rinnovarlo. Si pensi inoltre a ciò che rappresentarono l’istituzione delle caste e classi sociali nell’antica India e nel nostro Medioevo, istituzioni capaci di dar «forma» agli esseri, incanalandone forze naturali, psichiche e spirituali, in un orizzonte di senso, armonia e cooperazione, con l’intento di condurre a realizzazioni di «fortuna» terrena e «salute» metafisica.
La concezione di un ordine del mondo stabilito dalla volontà divina ebbe le sue conseguenze anche nel dominio dell’architettura, della costruzione e dell’arte. Fu solo quando il criticismo nei confronti della realtà prese il sopravvento sul sentimento di compartecipazione dell’uomo alla bellezza e ai ritmi della natura che l’uomo diresse le sue attenzioni verso ciò che nella realtà sconvolgeva o addirittura destava orrore, portandosi sino a quella che è stata ben definita come una «evasione distruttiva dalla forma». Credendo d’aver esaurito l’osservazione di ciò che colpiva i suoi sensi ma anche la sua missione civile, l’artista «moderno» vuole avventurarsi in quella parte che coinvolge la sua realtà psichica. Ed ecco, per tutto il XX secolo, l’attenzione degli artisti rivolgersi ad elementi come l’anarchia, i meandri reconditi della psiche, i suoi stati patologici, la follia; quest’ultima vissuta e rappresentata non nell’impeto trasfigurante di un eroico furore ma nella sua dimensione più squallida e nosocomiale. Inquietante ma quanto mai indicativo delle tendenze dell’epoca (ancora in atto) il motto preposto da Freud al suo libro sui sogni: «Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo».
E in effetti a partire dall’affermarsi del metodo psicanalitico tutto un vaso di Pandora si è riversato nella società e di rimando nelle arti; influenze psichiche proprie al subconscio personale o a quello collettivo han preso prepotentemente il sopravvento. Le forme artistiche che ne derivano vengono quindi a non assumere più un significato luminoso e armonico, ma oscuro e disgregante. Ecco l’emergere in arte del caotico, dell’informe, del morboso, e dunque del «brutto». Nel libro testamento Sole e Acciaio, dinanzi a questa tendenza cui anch’egli in precedenza aveva aderito, Yukio Mishima dirà: «perché gli uomini cercano la profondità, l’abisso? Perché il pensiero si preoccupa solo di scendere perpendicolarmente, come un filo a piombo? Perché non riesce, cambiando direzione, a salire verticalmente in alto, verso la superficie?». E rivalutando il ruolo della natura quale limite datore di forma: «Il corpo – affermerà ancora – ha limiti precisi, anche se un’idea ostinata volesse far crescere un paio di corna maestose sulla nostra testa. Esse, chiaramente, non spunterebbero».