“Io non cerco di fare psicoanalisi. Accetto le cose come sono”. Una frase che ha la stessa potenza lapidaria di un detto zen, un mantra o un premio di consolazione, eppure proviene da una persona che ha scelto la direzione inequivocabilmente e appositamente scomoda attraverso cui dirigere la propria esistenza. È convinto Eduard Limonov. Sicuro e fermo sulle proprie posizioni, come chi è abituato a guidare il timone della propria vita e sa dosare i tempi giusti e domare le tempeste, prendendole di petto. Del resto la stasi – di qualunque genere essa sia: esistenziale, politica o culturale- non gli è mai andata a genio: “Avevo undici anni e mentre guardavo un albero fuori dalla finestra della casa del quartiere operaio in cui vivevo, pensavo: ‘possibile che guarderò per tutta la vita questo albero merdoso?’”. Ha infatti tentato di progettare la sua esistenza in modo tale da lasciarsi la stasi alle spalle, tentando di sfuggirla o di sconfiggerla. La sua vita, i suoi progetti di vita, sono materia incandescente, anche per la letteratura e la politica ed è proprio questo materiale che ha voluto trasmettere nella sua ultima opera letteraria.
Presso il circolo TerraInsubre di Varese, in una piovosa domenica pomeriggio, l’esteta armato, il proletario della politica Eduard Limonov ha presentato il suo nuovo libro, un’autobiografia, vergata di suo pugno, dal titolo Zona Industriale (SandroTeti Editore). Nella conferenza stampa è un fiume in piena. L’Italia dice di conoscerla abbastanza bene, anche se non del tutto. “Conosco la vostra storia. Ho vissuto in Italia per qualche mese, nel 1974. In quel periodo l’Italia era attraversata da scontri, c’erano bandiere rosse dappertutto, nelle piazze e nelle università. Mi piaceva molto quel casino”. Parla di geopolitica, di carcere, di letteratura, immancabilmente di Russia e di rapporto con il trascendente. Limonov è una figura che vuole rompere i cancelli, vuole spiazzare, frantumare per poi ricomporre un personale quadro con le proprie coordinate esistenziali, artistiche e politiche. A volte sembra un situazionista allievo di Tristan Tzara, altre un sociologo allievo di Guy Debord, altre ancora un soldato che non disdegna andare oltre frontiera a rimettere le cose a posto. Trascorre i suoi trent’anni in larga parte a New York, dove sperimenta gli scarti dell’esistenza. Successivamente, per via di una propulsione esistenziale, ritorna in Francia, a Parigi, non più da esule ma da nuova promessa della letteratura underground, con una raccolta di poesie dal titolo Il poeta russo preferisce i grandi negri. Con il crollo dell’Unione Sovietica e degli stati dell’est, Limonov decide di impegnarsi attivamente nella lotta per la sopravvivenza culturale e politica del popolo russo. Scrive persino alcuni reportage, fa l’inviato di guerra, ma ad un certo punto decide che la guerra vuole combatterla pure lui. “Ho combattuto in Transnistria, in Serbia. Tentammo di organizzare varie insurrezioni. Mi hanno arrestato mentre ero sul monte Altaj, sono stato condannato per vari reati tra cui banda armata e possesso di armi. Prima della Crimea volevamo fare la stessa cosa in Kazakistan”. La conseguenza di queste azioni si è concretizzata nel carcere, esperienza mai rinnegata né denigrata, ma, anzi, esaltata a luogo di formazione mistica: “il carcere è come un monastero, può essere proprio paragonato all’ascetismo che si trova in certi monasteri. È il luogo in cui l’uomo si incontra con il caos ultraterreno. In carcere, ad esempio, ero molto più intelligente di adesso. C’erano persone che segnavano i giorni che passavano con una linea sul muro e li cancellavano giorno dopo giorno. Io ho avuto un approccio completamente diverso. Mi sono detto: ‘vivo qui’ e ho continuato a vivere”. Gli si chiede se crede in Dio e Limonov, con serenità, risponde: “Sì, credo nel Creatore, non credo in Gesù Cristo. Sono un eretico. Se pensavate di trovare un cristiano cattolico o ortodosso siete rimasti delusi”.
Limonov provoca, lo sa, sa che l’occidente ha bisogno di icone, di figure da criticare e demolire, per poi al tempo stesso riabilitarle, portarle a braccetto e fare un selfie in loro compagnia. Ha visto troppo per farsi piegare dalla tempesta della moda, perché sa che, come tutte le tempeste, può essere, se non domata, almeno schivata. Lo ammette lui stesso: “Non puoi cambiare il passato. Non siamo come in una competizione di salto in lungo, in cui hai la seconda e la terza prova. È così. Io ho vissuto molto intensamente”.