Nella Piazza degli Eroi o Heldenplatz, di fonte al Palazzo di Hofburg a Vienna, Austria, s’innalzano due grandi statue equestri in bronzo, rappresentanti il prìncipe Eugenio di Savoia e l’Arciduca Carlo d’Austria, ricordati como grandi comandanti militari. Disegnate da Antonio Dominik Fernkorn, nel 1860 fu terminata quella dedicata all’Arciduca Carlo (1771-1847), il vincitore della Battaglia di Aspern contro Napoleone nel 1809. Per l’inaugurazione Josef Strauss compose la Erzherzog Carl-Marsch, Op. 86, ed il valzer Heldengedichte, Op. 87.
La statua del principe Eugenio fu inaugurada nell’ottobre 1865, un anno prima della sconfitta austriaca di Sadowa, alla presenza dell’Imperatore Francesco Giuseppe, che le aveva commissionate, e di migliaia di viennesi, grati alla memoria del feldmaresciallo che aveva fedelmente servito gli Asburgo e l’Impero per decenni. Il medesimo Josef Strauss compose la Prinz Eugen-Marsch, Op. 186, utilizzando melodie popolari dedicate a “der edle Ritter” (il nobile cavaliere), che aveva sbaragliato, tra l’altro, i turchi nella Battaglia di Belgrado del 1717.
Sul basamento dell’imponente statua la dicitura “Al glorioso vincitore dei nemici dell’Austria” e dalla parte opposta “Al saggio consigliere di tre imperatori”. In Austria, Eugenio di Savoia-Soisson è riconosciuto come un grande condottiero e l’uomo che ha contribuito a rendere grande l’Impero asburgico, con mosse tattiche e politiche accorte, lungimiranti. Quanto sopra la dice lunga sull’affetto del principe per la popolazione austriaca. Ricambiato. Invece a Torino il condottiero passa quasi inosservato, all’interno di una nicchia del Palazzo Civico: una statua che lo raffigura in piedi, nell’atto di dare l’ordine per l’assalto alle guarnigioni nemiche durante la battaglia per liberare Torino dall’assedio francese del 1706.
Eugenio di Savoia-Soissons, noto come il Principe Eugenio (Parigi, 18 ottobre 1663 – Vienna, 21 aprile 1736), o Eugenio von Savoye – come egli firmava la sua corrispondenza, sottolineando il suo triplice carattere di italiano per origine e sangue, di francese per formazione culturale e di austriaco per scelta – è stato, infatti, un famoso generale al servizio del Sacro Romano Impero. Un difensore della tradizione cristiana europea.
Rampollo della famiglia dei Savoia-Soissons, del ramo Carignano, militò giovanissimo agli ordini degli Asburgo ed intraprese la carriera militare divenendo presto comandante dell’esercito imperiale. È considerato l’ultimo dei capitani di ventura; fu anche un abile riformatore militare, un precursore della guerra moderna e persino l’introduttore del celebre “Passo dell’oca” per ritmare il passo di parata delle truppe, una forma particolare di passo solenne e cadenzato, cento per minuto, con i soldati che elevano la gamba distesa fino a farle raggiungere una posizione orizzontale. Ancora in uso in Cile, Russia, Bielorussia, Cuba, Vietnam, Corea del Nord, Cina ecc.
Conosciuto come il “Gran Capitano”, combattè la sua ultima battaglia a 72 anni. Fu uno dei migliori strateghi del suo tempo e con le sue vittorie e la sua azione politica assicurò agli Asburgo ed all’Austria l’egemonia in Italia e nell’Europa centrale ed orientale. Eugenio era figlio del principe Eugenio Maurizio di Savoia-Soissons e di Olimpia Mancini, nipote del cardinale Giulio Mazzarino, di origine siciliana, Ministro di Luigi XIV, successore del cardinale Richelieu. Una delle sette fascinose ed intriganti Mazarinettes italiane, accasatesi, secondo le intenzioni dello zio, con alcuni dei migliori partiti di Francia e, en passant, pure amanti di sovrani. Olimpia fu coinvolta nell’affaire des poisons nel 1679 e dovette esiliarsi in Spagna e poi a Bruxelles.
Allevato con poco affetto, freddo e sicuro ad un tempo, circolava a Versailles – nella Corte peraltro più grande, debosciata, e maldicente d’Europa – la voce che Eugenio fosse omosessuale, al punto che gli fu affibbiato il nomignolo di una nota prostituta parigina, madame Lausienne. La voce era dovuta più che altro alle affermazioni della Principessa Palatina, moglie di Monsieur, Filippo d’Orléans, che lo odiava intensamente. Il suo fisico minuto e l’aspetto adolescenziale gli donarono pure il soprannome di “piccolo cappuccino”. Quella dei soprannomi fu una caratteristica costante che lo perseguitò nell’arco di tutta la vita; appellativi indirizzatigli soprattutto per schernire le sue (supposte) preferenze sessuali: “Madame Sodomie“, “Madame Putanà” e, pur volendo conservare qualche rispetto: “Mars ohne Venus“, ovvero “Marte senza Venere”. Fu condottiero e vero uomo di Stato. Nonostante la sua statura piccola e l’espressione poco marziale, il diciannovenne Eugenio aveva avuto l’ardire di presentarsi al Re Sole per chiedere di essere messo alla prova come ufficiale in battaglia, come lo era stato il padre. Il rifiuto da parte del re, vista la sua giovane età, lo offese al punto tale che una notte scappò da Parigi. Più tardi il Re si pentì, considerandolo il più grande errore del suo regno.
Eugenio fu un personaggio riservato, prudente, contrariamente ad un altro gran condottiero del tempo, suo cugino primo Luigi Giuseppe di Borbone-Vendôme detto “Il Gran Vendôme”, discendente di un bastardo di Enrico IV legittimato, e figlio di Laura Mancini, una delle Mazarinettes, sorella di Olimpia, la madre di Eugenio. Se fu uno dei più grandi generali di Luigi XIV, il Vendôme era rinomato soprattutto per la sua alterigia, grossolanità, libertinaggio. Divenne precocemente noto pure per la sua manifesta omosessualità. Saint-Simon lo accusò nei Mémoires di dedicarsi al vizio degli «abitanti di Sodoma». Nel corso della Guerra di Successione Spagnola fu comandante dell’Armata franco-spagnola scesa in Italia, dove fu sconfitto a Luzzara (1702) proprio dal cugino Eugenio, che vinse a sua volta a Cassano d’Adda, nel 1705, prima dell’assedio di Torino.
L’aspirazione di Eugenio di Savoia venne esaudita dall’Imperatore Leopoldo I d’Asburgo, presso il quale già aveva militato il fratello maggiore, Luigi Giulio. Il giovane stupì ben presto per il suo coraggio e la sua determinazione, sbaragliando gli Ottomani di Maometto IV, guidati dal Gran Visir Karamà Mustafà. Eugenio giocava su iniziativa, fantasia ed intuito, combattendo in prima persona ed incitando con l’esempio i soldati. Visse un’epoca di frequenti guerre e di continui capovolgimenti di fronte. Le sue doti strategiche e l’arguzia che lo distinguevano gli permetteranno, in breve tempo, di arrivare ai vertici dell’esercito imperiale.
La fortuna militare di Eugenio di Savoia iniziò con la battaglia di Kahlenberg, alla quale seguì la liberazione di Vienna, nel 1683, allorchè egli diventa colonnello dei “Dragoni di Savoia”; raggiungerà l’apice della fama con la sconfitta dei turchi a Belgrado nel 1717, che gli valse il bastone di Maresciallo. La sua prestigiosa carriera fu un susseguirsi di molti successi e pochissime sconfitte, non determinanti, in tutti gli scenari di guerra nei quali fu protagonista. Le sue gesta risuonarono per tutta l’Europa; la sua decisa azione fu determinante in molte battaglie. Era un uomo di grande aplomb e considerato d’indiscussa serietà e correttezza di comportamenti.
Non c’erano solo rose:
‘Mentre affrontava un mondo di nemici davanti, aveva un mondo di nemici alla sua schiena, nutriti dalla “maledizione ereditaria” dell’Austria: anime pigre e menti senza pensieri, bassi intrighi, invidia, gelosia, sciocchezza e disonestà. Servì tre imperatori: Leopolo I, Giuseppe I e Carlo VI. Verso la fine della sua vita, Eugenio osservò che, mentre il primo gli fu un padre e il secondo un fratello, il terzo (che era forse il meno degno di un servo così grande) fu un padrone’. (Alexander Lernet-Holenia, in: Encyclopaedia Britannica).
La battaglia di Zenta, combattuta nel 1697 contro i turchi in Ungheria, permise al principe di diventare un eroe ed al ritorno un ingresso trionfale lo attese a Vienna con grandi festeggiamenti ed il conio di una medaglia con la sua l’effige. Il feldmaresciallo Eugenio è praticamente vissuto sui fronti di guerra; innumerevoli le battaglie da lui combattute e vinte, ma ovviamente quella che ricordiamo maggiormente è la liberazione di Torino dall’assedio francese, durante la Guerra per la Successione al trono di Spagna. Eugenio, con il cugino Duca Vittorio Amedeo II di Savoia sulla collina di Superga, vedendo la situazione della città ai suoi piedi si rese subito conto della disorganizzazione dell’esercito transalpino, esclamando: “Ces gents là sont dejà a demi battue”.
Il 7 settembre 1706, grazie all’intuizione del grande condottiero, Torino è finalmente libera dall’esercito comandato dal Duca di La Feuillade. La dura e sanguinosa battaglia fu vinta – con il contributo essenziale della fanteria prussiana del principe di Anhalt – e l’architetto messinese Filippo Juvarra venne incaricato di progettare, in segno di ringraziamento verso la Vergine, un grande santuario in stile tardo-barocco. Inevitabilmente, come accennato, la carriera militare del principe sabaudo comprende anche alcune sconfitte, come la Battaglia della Marsaglia nel 1693 e Tolone, nel 1707. Quest’ultima, combattuta contro il parere di Eugenio, inasprì i rapporti con il cugino Vittorio Amedeo e la sconfitta accrebbe la disistima nei confronti del regnante Duca e dei suoi continui voltafaccia; lo riteneva inaffidabile, capace di dire una cosa facendone un’altra, e pensando ancora diversamente.
Le campagne che hanno visto coinvolto il principe Eugenio sono molte, dalla battaglia di Zenta alla Guerra di Successione Polacca. Ferito in battaglia ben tredici volte egli sempre mantenne fede all’impegno assunto con l’Impero degli Asburgo, fino alla fine dei suoi giorni. L’ultimo conflitto armato lo vide comandante supremo del fronte sul Reno. Nonostante Eugenio di Savoia dedicasse gran parte della sua esistenza alla guerra, lo scopo della sua vita rimaneva, paradossalmente, la pace. Eccelse in politica, seppe destreggiarsi con acutezza e perseveranza, dimostrando eccelse doti nel campo della diplomazia. Non a caso venne pure insignito dell’Ordine del Toson d’oro da Carlo II di Spagna. Sobrio e modesto nel vestire, fu mecenate e bibliofilo; fece costruire sontuosi palazzi e castelli, fra i quali il “Belvedere” di Vienna, meraviglioso nel suo stile barocco e colmo di raffinate opere d’arte. In Ungheria la Villa di Ráckeve, sull’isola di Csepel, nell’attuale Budapest.
Morto senza eredi diretti, i suoi beni passarono alla nipote cinquantaduenne Vittoria, che, diventata ricca, trovò subito marito: il principe Giuseppe Federico di Sassonia-Hildburghausen, di vent’anni più giovane. La coppia si stabilì nel castello di Schlosshof, acquistato da Eugenio nel 1725 e fatto restaurare ed ampliare secondo il progetto dell’architetto Johann Lucas von Hildebrandt. Eugenio considerava tale castello la propria residenza estiva.
Fuggito da Parigi senza il becco di un quattrino, Eugenio era, infatti, presto diventato ricco, con un grande prestigio ed una moltitudine di cariche amministrative e militari. In battaglia si buttava nella mischia e divideva con i soldati le difficoltà delle campagne; per la sua munificenza venne chiamato “Principe Sole”. Alla sua morte, avvenuta nel 1736, i funerali furono assai solenni, il corpo venne sepolto nella viennese cattedrale di Santo Stefano ed il suo cuore nella torinese cripta di Superga.
Scrisse di lui Hugo von Hoffmannsthal nel 1914:
‘Rimanere alla testa di un esercito, come egli rimase, conducendolo a battaglie e poi ancora a battaglie, ad assedi e poi ancora ad assedi, per trentanove anni. Tirarlo fuori dal fiume Sava, condurlo in Lombardia e poi indietro, attraverso il Tirolo verso la Baviera e sul Reno e poi di nuovo giù nel Banato e su, un’altra volta, nelle Fiandre. Cadere ferito per tredici volte e poi di nuovo sul cavallo, di nuovo in tenda, di nuovo in trincea. Ed i suo sguardo d’aquila su tutto, sull’esercito e sulle salmerie, sull’artiglieria e il territorio e il nemico. E la brevissima preghiera prima dell’azione, quel di lui “Mon Dieu!”, con uno sguardo verso il cielo, eppoi il segno “Avancez!”, con un unico breve movimento della mano. Spingere tutto ciò, sempre avanti, con la sola forza della volontà. E mantenere ogni cosa in vita, imporre tutto con forza vitale, compensare, nutrire, penetrare tutto col suo spirito, e per trentanove anni. Quale fatica d’Ercole!’.
La fama del Prinz Eugen rimase ineguagliata sin da quando egli divenne l’eroe della monarchia asburgica. Eroe di Austria, Italia, Germania. Le tre Forze Armate hanno adottato la sua famosa Marcia, ancor oggi attuale, e le Marine da Guerra gli hanno intitolato importanti unità. Il Prinz Eugen era un incrociatore pesante della Kriegsmarine tedesca, varato nel 1938, attivo durante la seconda guerra mondiale e l’ultima grande nave tedesca ancora in grado di tenere il mare nel maggio 1945 (poi usata nel Pacifico per esperimenti nucleari dagli statunitensi). Varato nel 1935 l’Eugenio di Savoia fu, invece, un incrociatore leggero della Regia Marina italiana, poi ceduto alla Grecia dopo la sconfitta. La SMS Prinz Eugen fu, altresì, il nome di due corazzate austro-ungariche, entrate in servizio nel 1877 e nel 1913 (quest’ultima, una dreadnought, ebbe come comandante anche Miklós Horthy, futuro Reggente d’Ungheria). E pure la HMS Prince Eugene, un monitor varato nel 1915, della British Royal Navy, attivo nella Prima Guerra Mondiale. La composizione di Strauss fu la Marcia d’Ordinanza del 3° Reggimento «Savoia Cavalleria». La Banda dell’Arma dei Carabinieri la esegue normalmente (e discretamente).
Piazze e corsi sono stati dedicati ad Eugenio di Savoia in varie città.
(Cfr.Giuseppe Ricuperati, Mars ohne Venus? Eugenio di Savoia fra libertinaggio e libertinismo, tra maschile e femminile, in: Rivista storica italiana, Napoli, 2014, Vol. 126, Nº. 3, 2014, pp. 788-822; Nicholas Henderson, Prince Eugen of Savoy, New York, 1965; www.seetorino.com/eugenio-di-savoia-lo-stratega; http://wikipedia.org/wiki/Principe_Eugenio; Gianluigi Chiaserotti, Eugenio di Savoia, il difensore della tradizione cristiana europea, 2017,
in: http://italiasabauda.it).
Ne I promessi sposi Alessandro Manzoni descrive l’esercito imperiale in marcia attraverso la Lombardia, durante la guerra di successione di Mantova e del Monferrato, parte della guerra dei Trent’anni. La guerra del Monferrato – e la grande peste che colpì la penisola tra il 1629 e il 1631 – fanno, infatti, da sfondo alle vicende di Renzo e Lucia, nel grande romanzo che, con notevole accuratezza e ricerca storiografica, mostra la società italiana al tempo del dominio spagnolo e la rovina causata da saccheggi, epidemie, carestie, portati dagli eserciti:
«Sopra tutto si cercava d’aver informazione, e si teneva il conto de’ reggimenti che passavan di mano in mano il ponte di Lecco, perché quelli si potevano considerar come andati, e fuori veramente del paese. Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Fürstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo. Lo squadron volante de’ veneziani finì d’allontanarsi anche lui; e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero». (cap. XXX).
Ciò detto, s’impone una riflessione. In un periodo di grave crisi politica e militare d’Italia, personaggi come quelli citati dal Manzoni, al servizio dell’Impero, soprattutto Raimondo ed Ernesto Montecuccoli, Rodolfo di Colloredo, Mathias Gallas, erano stati non indegni successori di Alessandro Farnese, terzo duca di Parma e Piacenza, nipote di Filippo II di Spagna, Governatore dei Paesi Bassi e tra i massimi condottieri del XVI secolo, e predecessori dello stesso Eugenio di Savoia-Soissons.
Se l’Italia non si sentì mai parte di Francia o Spagna, il rapporto con l’Impero fu più complesso e sfumato. Senza tirare in ballo Federico II, Dante e ghibellini vari, non solo importanti famiglie friulane e trentine furono fedelissime agli Asburgo, ma per cinque secoli, dal Medio Evo al primo Ottocento, i Savoia, ad esempio, si considerarono grandi nobili del Sacro Romano Impero Germanico, discendenti del principe sassone Beroldo, della stirpe del duca Vitichindo di Sassonia, capostipite del casato Wettin, ed aspiranti invano, fino alla fine del S.R.I., a diventarne Principi Elettori. Lo Stato sabaudo era orgoglioso di tale primato e di un’identità che non era né francese, né italiana. Ma tali ambizioni e glorie, a lungo propagandate, furono cancellate in pochi anni da re Carlo Alberto, che non le giudicava più politicamente utili per mettersi alla testa del movimento di unificazione italiana. Così Vitichindo e Beroldo vennero epurati. Le loro memorie allegoriche furono cancellate dal Palazzo Reale di Torino e dalle altre regge sabaude. Al posto di Beroldo fu promosso, come capostipite sabaudo, il presunto suo figlio Umberto Biancamano, membro di una potente famiglia di Borgogna.
Eugen Dollmann, nato a Ratisbona in Baviera – venuto in Italia negli anni Venti, dopo la laurea con lo storico Hermann Oncken che gli cambiò il destino, procurandogli una borsa di studio per studiare la figura del cardinale Alessandro Farnese – divenne poi il rappresentante personale per l’Italia di Heinrich Himmler, Reichsführer delle Schutzstaffel (SS), ed in quanto tale il nazista considerato più importante, sfuggente e misterioso a Roma sotto l’occupazione tedesca. Traduttore di Hitler in Italia nel 1938, fu promosso SS Standartenfüher (colonnello) anche se non era mai stato nazista e neppure aveva fatto il Servizio Militare! Egli non era propriamente Marte, come l’omologo condottiero sabaudo, pur possedendo un migliore physique du rôle; piuttosto era un abile diplomatico non ufficiale. Per l’affascinante, alto, biondo ufficiale in uniforme nera (certamente più amante della pace che della guerra) mai si schiusero le grazie di nessuna Venere, pare, nonostante l’impegno profuso in tal senso da varie nobildonne romane.
Colto, simpatico, brillante, dall’eloquio brioso e frizzante, elegantemente scettico, assai innamorato dell’Italia, Dollmann divenne un personaggio, bene introdotto presso l’alta nobiltà ed il Vaticano, specialmente dopo la caduta del Fascismo, il 25 luglio 1943. Anche se il capo operativo delle SS a Roma, Herbert Kappler, il principale responsabile dell’eccidio delle Ardeatine, non riconosceva personalmente a Dollmann (che la rappresaglia tentò di evitare o mitigare) le qualità adatte per occupare il posto di rappresentante politico delle SS, giudicandolo molle, senza virilità e carattere. Attivo col generale SS Karl Wolff per la resa dei tedeschi in Italia, egli fu protetto e nascosto dal cardinale Schuster nel ‘45, e successivamente, si ritiene, collaborerà con la CIA. Ha pubblicato diversi volumi di memorie, che costituiscono una fonte storica rilevante. Dollmann, traduttore dei dialoghi de “La Dolce Vita”, tra l’altro, morirà, scapolo come il Principe Eugenio, a Monaco nel 1985.
Eugen Dollmann era nipote del medico di fiducia dei Wittelsbach e, quindi, anche di Elisabetta, Sissi, poi Imperatrice d’Austria. Un giorno, il 10 luglio del 1914, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, egli accompagnò la madre alla Villa Imperiale di Bad Ischl, ad un’udienza con il Kaiser Francesco Giuseppe. Scriverà poi in Un libero schiavo (Bologna, 1968, pp. 14-16):
‘A un certo punto Francesco Giuseppe affermò d’essere lieto che ciò “fosse stato risparmiato all’Imperatrice”. Forse alludeva all’attentato di Serajevo, forse al pericolo della guerra… All’improvviso s’interruppe esclamando: “Così dunque, questo sarebbe il ragazzo!”. Alzò appena la mano destra, facendo cenno d’accostarmi. “Come ti chiami, ragazzo?” fu la prima domanda. Conoscevo la risposta e balbettai: “Eugenio, Maestà”. La voce dell’Imperatore suonò dolce alle mie orecchie. “Dunque, dunque, Eugenio. Ti auguro di divenire prode come il grande Eugenio di Savoia, un fedele servitore della mia Casa!”. Di questo Eugenio, grazie al mio nome, sapevo qualche cosa. Ciò che ignoravo era che senza un simile “fedele servitore della sua Casa” il vecchio signore non sarebbe stato forse seduto dinanzi a me. Al suo posto avrei trovato un qualche sultano turco o un discendente degli innumerevoli nemici di Casa Asburgo. “Quando sei nato, ragazzo?” fu la seconda domanda. Vidi mamma mordersi le labbra. Ma l’ordine era perentorio. Rispondere brevemente a tutte le domande. Perciò dissi: “Il 21 agosto 1900, Maestà!”. A questo punto mi spaventai. Sua Maestà si portò la mano agli occhi, come se volesse allontanare qualcosa dalla mente. Si voltò verso la mamma: “Il 21 agosto! Proprio come il povero Rodolfo!”. Allora non compresi. La cosa del resto durò un attimo. Con mani tremanti e rugose l’Imperatore aveva nel frattempo aperto un cassetto della sua scrivania. Porse alla mamma il ritratto di una donna bellissima: un ritratto che conoscevo molto bene per averlo visto, anch’esso, nella nostra casa…Era la copia originale del famoso ritratto giovanile dell’Imperatrice dipinto da Franz Schlotzbeck. Con voce flebile, quasi da non potersi udire, l’Imperatore mormorò: “Come era bella l’Imperatrice! Lo vorreste, questo ritratto, per ricordo, signora baronessa?”. Diceva sempre “signora baronessa”, rivolgendosi alla mamma. Una cosa che suonava tanto lontana nel tempo, che risaliva a molti decenni prima, quando aveva elevato il nonno al rango di barone. Mamma annuì, con le lacrime agli occhi. Poi il vecchio signore si alzò. Mamma sprofondò nuovamente nell’inchino. Egli la accompagnò galantemente alla porta e per l’ultima volta ascoltai la voce dell’ultimo Imperatore d’Europa: “Arrivederci, forse, al prossimo anno, signora baronessa. Mi ha fatto molto piacere la sua visita: è stato molto bello!”.’
All’epoca Dollmann non aveva ancora 14 anni e per il resto della sua vita restò impressionato dal tratto, dallo stile di quel venerabile anziano, simile ad un “buon Dio” più che ad un sovrano, che aveva avuto l’occasione d’incontrare, da quel mondo monarchico e dinastico (e germanico-meridionale cattolico, istintivamente antiguglielmino, contro il nazionalismo esasperato, aggiungo io) al tramonto, come nota Francesco Perfetti nella bella Prefazione a La calda estate del 1943 (Firenze, Le Lettere, 2012), breve antologia di articoli di Eugen Dollmann pubblicati su settimanali italiani negli anni Sessanta. Prefazione forse più interessante degli stessi articoli ristampati e che fa riferimento soprattutto al “vero” e più interessante libro di Dollmann, Roma nazista (Milano, Longanesi, 1949).
Al di là di una comprensibile apologia e, probabilmente, di qualche mezza verità.
(Vienna, Castello del Belvedere – Schloss Belvedere – sorge nel quartiere di Landstraße. È uno dei capolavori dell’architettura barocca austriaca e una delle residenze più belle d’Europa. Venne costruito da Johann Lucas von Hildebrandt per il principe Eugenio di Savoia-Soissons ed è formato da due palazzi contrapposti, il Belvedere superiore – Oberes Belvedere – e quello inferiore – Unteres Belvedere – separati da una grande prospettiva di giardini alla francese affacciati sulla capitale).
(Torino, Real Basilica di Superga. Fondata dal duca Vittorio Amedeo II di Savoia dopo l’assedio e la battaglia di Torino del 1706. Prima dello scontro decisivo, il duca ed il cugino Eugenio di Savoia-Soissons salirono sul
colle di Superga per vedere dall’alto lo schieramento delle truppe francesi. Sul colle il duca fece voto alla Vergine Maria, promettendo che, in caso di vittoria, avrebbe fatto costruire un gran santuario a lei dedicato, poi consacrato nel 1731. Nella costruzione è compresa la Cripta Reale di Casa Savoia).
*già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay