Pubblichiamo la prefazione di Renato de Robertis al testo “Le disgrazie del libro in Italia”, riedito da Lb Edizioni, pagg.37. Ritorna l’attenzione su un grande autore del Novecento da rileggere in un quadro critico post-ideologico. L’opera è acquistabile on line su www.lbedizioni.it
Scritto nel 1954, questo pamphlet esprime una sensibilità critica di straordinaria attualità. La sua conclusione è chiara: lo Stato dovrebbe operare maggiormente per i libri, per l’editoria, per le biblioteche. Se poi sulla terra tornasse Giovanni Papini, al governo nazionale chiederebbe una patrimoniale per finanziare la cultura e loderebbe il bonus diciottenni che consente, ai nostri ragazzi, di comperare libri. Prima di tutto, infuriandosi, egli scriverebbe sull’ignoranza dei politici. Leggendo “Le disgrazie del libro in Italia”, sopraggiunge una domanda: la difesa del libro cosa rappresenta in Papini?
Nel 1895, a quattordici anni, lo scrittore toscano pubblicò il primo libro e due anni dopo elaborò due riviste. Sua creatura, che trovò sùbito spazio nella storia letteraria, fu ‘Leonardo’ (1903), rivista di “pagani e individualisti.” Il successo gli arrivò con ‘Lacerba’ (1913), con un’ avanguardia editoriale che comunicò la rottura con il passato artistico-letterario. Papini, un testimone di avventure letterarie. Un intellettuale appassionato di scontri dialettici. Nel 1921, scrisse il suo best seller, ‘Storia di Cristo’, tre edizioni in pochi mesi e 70.000 copie vendute. Poche note non bastano per ricordare le vicende di un innovatore, di un comunicatore diretto, provocatorio, essenziale; il padre delle stroncature. Il pregevole opuscolo “Le disgrazia del libro in Italia” è puro stile papiniano analitico e sarcastico. Qua le cattive abitudini sono frustate: ecco le verbali staffilate su “i parassiti” italiani che non comprano libri e fan di tutto per trafugarli e poi “fingono di credere che i libri non costino assolutamente nulla a chi li fa.”
Gli italiani e i libri, un rapporto di storica crisi. Per i nostri giorni, le statistiche sottolineano che sono stati persi tre milioni di lettori dal 2010. I giovani leggono solo media digitali compiendo un’operazione incostante e scarsamente formativa. Rispetto agli anni di Papini, la classificazione di chi non legge andrebbe allargata per aggiungere che, nei nostri giorni, ci sono i pragmatici che non comperano libri perché han visto i relativi film. Ci sono i bugiardi che non leggono perché privi di tempo ma di continuo drogati di ore televisive. E ci sono pure i creativi che non possono più leggere in quanto han deciso di diventare scrittori. Tanto diffusi quest’ultimi, ai quali Papini avrebbe scritto, con asprezza, “leggere molto di più e pubblicare molto di meno.” (‘Eresie letterarie’, 1947)
Il discorso papiniano ci fa considerare “coloro che, in Italia, non comprano libri”, come i “politicanti”, mai cambiati dal 1954. Ieri – lo scriveva Papini – i politici leggevano solamente fumosi verbali dei congressi. Oggi, quando vengono intervistati, i deputati o i senatori non conoscono nemmeno il titolo di un romanzo. Così il problema del libro torna, ovviamente ha un legame con la crisi della cultura umanistica. Di certo, Papini fu un umanista anarchico del Novecento: da studioso di storia, letteratura, arte,.. credé profondamente nel fuoco della cultura. Nel libro “Italia mia” (1939), dall’antica Roma al Rinascimento, ricapitolò la storia d’Italia come un umanista alla ricerca di “missioni europee” per l’Italia. Nello stesso momento, sorprendono le sue ‘riflessioni europee’ che affermavano “chauvinismo e xenofobia non sono parole italiane”, scrivendo ciò egli contraddiceva i suoi rapporti con gli estremismi nazionalistici. Papini è complesso. Polemico. Sempre fedele alla civiltà del libro. In tale senso, il pamphlet del 1954 manifesta un sentimento per il libro come “sorgente a portata di mano.” Piccolo ma ricco testo morale, “Le disgrazie”, fa emergere delle aperture tematiche poetiche,
“Chi tocca un libro tocca un’anima. Chi tocca un libro possiede un amico sicuro, silenzioso, quanto mai modesto, che si può chiamare o congedare.”
Frasi così dovrebbero essere trascritte sulle porte delle biblioteche o sugli ingressi delle scuole. In un’ideale classifica di citazioni dedicate alla grande bellezza del libro, c’è l’occasione per sottolineare una frase papiniana,
“Esiste un libro adatto per ogni uomo, c’è un libro per ogni curiosità, per ogni giornata. A chi sa interrogarlo risponde sempre; se lo lasciate attende per anni, col suo tacito tesoro chiuso nelle pagine, il vostro ritorno.”
La pubblicazione Lb rilancia il dibattito sul destino del libro e consente una riflessione, in un quadro post-ideologico, su un discusso autore del secolo scorso. Lo scrittore toscano interpretò glorie, furbizie e pochezze degli italiani, rispondendo alle drammatiche crisi del suo tempo. Altro famoso pamphlet, ‘Chiudiamo le scuole’ (1919), conferma l’originale identità oppositiva di questo intellettuale ‘polemista’. (Cfr. A. Gramsci) Piace concludere con Enzo Siciliano, che, partendo da libere premesse politico-culturali, considera Papini un uomo contro nel Novecento: “un grande irregolare” contro socialisti e liberali, critico verso gli artisti senza rotta, in lotta con gli accademismi, prima ateo e dopo cattolico, scrittore per una letteratura come “arma di lotta” o reazione che possa influenzare la realtà,
“Il Novecento italiano è stato attraversato da alcuni grandi irregolari che riuscirono a incidere con forza sull’immaginazione dei propri contemporanei. Imparagonabili per altezza della riuscita espressiva individuale: ma, una trama di irregolarità accomuna D’Annunzio, Pasolini e Papini.” (‘Interviste sulla modernità’, 2003)