“Buongiorno Signor Tenente, prego entri“. Non gli è dovuto quel “signor” rivolto al Tenente della “Folgore” che non manca mai di andarlo a trovare per Natale, Pasqua o per il compleanno ma lui, Giuseppe Baroletti, 97 anni, ama la forma appresa a Viterbo tanti anni prima…
Nella sua casa di Livorno, un angolo di pace a due passi dal mare, Baroletti accoglie due militari e un giornalista a pochi giorni dalla Pasqua e racconta, come fosse ieri, la sua avventura di fante dell’aria:
“Scelsi io di andare nei paracadutisti e venivamo trattati bene: l’addestramento, certo, era particolarmente duro e le selezioni scartavano molti aspiranti, eppure nel reparto si mangiava e si stava ottimamente“.
Gli anni immediatamente precedenti alla Seconda Guerra Mondiale assistono alla nascita e al perfezionamento della specialità del paracadutismo militare, pertanto coloro i quali accettano di seguire quell’iter sono una minoranza di pionieri ai quali, lecitamente, l’Esercito Italiano riserva un trattamento d’eccezione proprio per la peculiare e difficile attività da svolgere.
“Allora non c’era il paracadute d’emergenza” scherza Giuseppe, rammentando quanto arduo e ardito fosse lanciarsi da un aereo agli inizi degli Anni ’40. E, al pari di altri suoi commilitoni, il destino del paracadutista valtellinese (naturalizzato livornese) è il Fronte Africano dove l’Italia combatte, sin dal 1940, una dura campagna contro gli inglesi, un conflitto che ha quale decisivo punto di svolta le due battaglie di El Alamein (1-27 luglio ’42; 23 ottobre – 5 novembre ’42), momenti drammatici che, tuttavia, contribuiscono a costruire il mito dei paracadutisti della “Folgore”.
“Gli 88 inglesi bombardavano le nostre posizioni e portavano morte fra i nostri. Fui ferito da schegge di uno di quei proiettili” ricorda l’anziano parà, poi catturato nel marzo successivo.
“Alla cruda battaglia seguì una dura prigionia: i campi britannici erano tutt’altro che accoglienti e il trattamento era aspro. Inseguito, da Alessandria d’Egitto mi trasferiscono in Palestina e qui svolgo, con altri commilitoni, alcuni lavori per il comando inglese. Assistiamo un comandante che con noi si mostra umano, ma si evita di parlare della cosa a chi è rimasto al campo: infatti, malgrado il nostro fosse un impiego forzato, obbligatorio, da prigionieri per l’appunto l’idea che si lavorasse per il nemico non piaceva affatto e non mancarono casi di linciaggio di italiani da parte di altri italiani rinchiusi nel medesimo centro detentivo”.
A 97 anni la mente e lo spirito di Giuseppe sono fermi al 1942, cioé a quando era ventenne e si cimentava nel duro addestramento dei paracadutisti. Lucido, giovanile, sempre pronto alla battuta come quando scorge torre e stella sul tubolare di uno dei militari in visita:
“Mi scusi lei è? Come??? Un Maggiore!” Si alza per mettersi sugli attenti, fedele alla forma di cui sopra. E’ figlio di altri tempi, quelli in cui sarebbe stato difficile per un fante scherzare e prendere un caffè con un ufficiale superiore. Ma il cambiamento dei tempi si accompagna anche alla necessità di preservare il ricordo di una identità e di una tradizione che rischiano di scomparire: oggi, infatti, la Brigata “Folgore” celebra il suo “leone” facendo sentire affetto e vicinanza non limitati alle occasioni ufficiali, come dimostrato da una visita, informale, di fine marzo che non manca di sorprendere e di coinvolgere l’anziano parà fra racconti di guerra nel deserto, di privazioni ma anche di una gioventù bella e vissuta fino in fondo. Nonché un’ occasione in più per calarsi in testa il basco amaranto e rivendicare l’orgoglio della sua scelta e dell’appartenenza alla sua amata Folgore.