La Dolce Vitti è una piccola, ma interessante mostra fotografica sulla vita e la luminosa carriera di Monica Vitti: l’attrice che, insieme alla Loren, è nel cuore di varie generazioni di italiani, divenendo parte dell’immaginario cinematografico nazionale. La esposizione è in corso a Roma, presso il Teatro dei Dioscuri al Quirinale, e sarà aperta fino al 10 giugno, per la cura di Nevio De Pascalis, Marco Dionisi e Stefano Stefanutto Rosa.
Un evento “immersivo”, fatto di numerosi scatti dai primi anni della formazione teatrale dell’attrice, dal doppiaggio al cinema, dall’essere considerata, e di questo parleremo a breve, la “Musa di Antonioni”, fino a divenire la assoluta regina della nostra commedia. Le suggestive, talora pure belle, fotografie che si possono osservare in questa mostra provengono da archivi pubblici e privati. A esse, sono affiancati: filmati vari, installazioni audio e video, nonché numerose testimonianze scritte di chi ebbe la gioia di lavorare con la Vitti.
Vera, autentica e romana
Ma chi è costei? Considerato il silenzio che lei stessa ha imposto intorno a sé, il quale fa dimenticare che, per fortuna, la Vitti è ancora in vita. Alla anagrafe Maria Luisa Ceciarelli, romana di Roma, ma sia ben chiaro, non nel modo volgare della romanità odierna, come pure a tratti quella dei tempi di Trilussa. La veracità di questa importante interprete del nostro cinema si è sempre declinata attraverso un accoramento e una autoironia che oggi mancano tra gli abitanti della Città Eterna. Da giovane, le venne detto che non poteva recitare, né al cinema né al teatro, visto che la sua voce era troppo bassa e roca e il suo essere magra e bionda contrastava col canone femminile allora in voga in Italia, il quale esaltava donne dalle forme pronunciate e con volti da seduttrici. Tutte “qualità” che lei non possedeva, eppure non demorse, da donna intelligente qual è sempre stata; poi come è andata lo sappiamo quasi tutti, a cominciare dai quattro film con Michelangelo Antonioni (L’avventura, 1960; La notte, 1961; L’eclisse, 1962; Il deserto rosso, 1964).
Una mostra, questa, che è in fondo un racconto testuale a tappe, ove si presenta un ricco apparato iconografico di oltre cento immagini, che si rivelano per l’occhio dello specialista interessanti fonti filmografiche e teatrografiche. Invero, questa esposizione potrebbe attirare il pubblico esclusivamente per il fatto di essere gratuita, considerato che oramai personaggi della grandezza della Vitti sono finiti nel dimenticatoio, giacché la televisione – purtroppo e colpevolmente persino la RAI – se ne infischia beatamente di proporre con continuità i film che hanno fatto la storia della Settima Arte italiana, relegandoli in fasce orarie secondarie, preferendo esaltare dei quiz decerebranti o programmi sulla politica culturalmente imbarazzanti. Per converso, lo studioso, e non il critico, di cinema può, attraverso il materiale qui presente, entrare in possesso di informazioni utili per ricomporre una narrazione coerente ed esaustiva, e non ideologizzata come avviene spesso nella stampa specialistica nel nostro Paese, sulla evoluzione della italica cinematografia, accorgendosi come attorno alla Vitti abbiano gravitato grandi registi, nonché alcuni dei celeberrimi “mattatori” dello spettacolo, assieme a fondamentali esponenti del mondo del teatro. Insomma, ripercorrendo la sua vita, si ripercorre pure la storia popolare della Nazione dal Secondo Dopoguerra, sino ai primi anni ’80, l’ultimo periodo significativo della sua sfolgorante carriera.
Il sodalizio con Alberto Sordi
Non sarebbe esagerato affermare che vi sia una sorta di incantesimo che la Vitti ha fatto al pubblico, e per il quale lei è da considerarsi l’ultima grandissima diva del nostro schermo, amata da una platea di spettatori assai variegata, essendo l’attrice che suscita la maggiore simpatia e commozione in un modo trasversale, poiché alla fine ognuno di noi ama la “sua” Vitti. A tal proposito, siamo personalmente in aperto disaccordo col taglio della mostra, nel raccontarla quale “la Musa di Antonioni”. Certo, i film del valente regista ferrarese l’hanno lanciata, però, è a nostro avviso con Alberto Sordi che lei è divenuta La Vitti, poiché di Sordi era un perfetto ‘corrispondente’ al femminile, essendo stata l’unica donna che abbia mai potuto interpretare la compagna, moglie o amante che fosse, di questo incredibile attore. Allora, va ricordato che affianco a lui ella recitò in tre pellicole, dirette sempre da Sordi: Amore mio aiutami (1969), Polvere di stelle (1973), Io so che tu sai che io so (1982). Inoltre, il film del ’69 non solo la vide in quella che è probabilmente la sua interpretazione quintessenziale, nella quale la Vitti si mostra sensuale e goffa; romantica ed egoista; romana, in ciò differente dalla Magnani, ma non popolana. Amore mio aiutami è una opera che andrebbe riscoperta, in cui Sordi crea un autentico libello antimoderno di rara veridicità e schiettezza, senza però mai perdere quella leggerezza che è tipica del suo Cinema. Ma si sa, persino adesso che si va a inaugurare la sua casa-museo nei pressi delle Terme di Caracalla, come la critica militante italiana non riesca proprio a concedere a Sordi la qualità che si trova – non diciamo proprio in tutti – alcuni suoi film.
Tornando alla Vitti, costei non è stata semplicemente una attrice, bensì la colonna di quasi tutti le pellicole in cui ha recitato, creando una tipologia femminile tutta sua, moderna, appassionata, sentimentale, disincantata, dolce, ma non troppo. Infatti, le tante foto qui esposte consentono di accorgersi che lo sguardo della Viti era contemporaneamente ammaliante e malinconico. Quattro decadi di cinema e spettacolo l’hanno vista riuscire nella ardua impresa di essere bella, eppure divertente; in possesso di una fisicità non certo comune, benché mai oggetto del desiderio. Forse è per questa ragione, nel suo essere stata sistematicamente diversa, che è riuscita a unire le due anime belligeranti del nostro cinema più grande: autorialità e commedia. In questa sintesi la Vitti è stata una attrice unica, purtroppo per noi irripetibile.
Va ricordato che le fotografie che compongono la mostra provengono da importanti archivi pubblici, a partire da quello sterminato dell’Istituto Luce, che non ha eguali al mondo, da quello dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, dal Centro Sperimentale di Cinematografia, nonché da raccolte private, come la Reporters Associati, l’Archivio Enrico Appetito e altri preziosi fondi come quelli personali di Elisabetta Catalano e Umberto Pizzi. Immagini spesso rare che toccano la carriera e le evoluzioni di una interprete capace di mutare insieme al Paese.
Innovativa e unica, per questo non va dimenticata
Iscritta proprio alla “Silvio d’Amico” nell’anno accademico 1950-’51, fu grazie a un maestro assoluto del teatro come Sergio Tofano, che riconobbe in lei un vero talento comico, invitandola però a cambiarsi il nome, che cominciò la sua carriera nello spettacolo. Da quel momento in poi, la Vitti diventerà la regina di un genere dominato storicamente dagli uomini. La vediamo, quindi, recitare a fianco di tutti loro (Gassman, Manfredi, Mastroianni, Tognazzi), che venivano appellati, come detto, i “mattatori” della nostra straordinaria commedia, senza però essere accessoria, avendo pari dignità e qualità di questi attori che hanno segnato indelebilmente la storia della cinematografia italiana. E in una Nazione come la nostra, ove tutt’ora vediamo delle “bamboline” sedere in Parlamento, beh, non è stata cosa di poco conto!
Infine, La Dolce Vitti è altresì una occasione per rivedere, nella sala cinema del Teatro dei Dioscuri, alcuni dei film più significativi che l’hanno vista protagonista; tra questi, ça va sans dire, nemmeno uno con Sordi. Finalmente Roma torna a omaggiare una delle sue maggiore dive, dimenticando tuttavia il suo sodalizio col principale attore mai prodotto dalla Città Eterna. La intellighenzia italiana post ’45 è stata perlopiù capace di aiutare la ideologia e non accorgersi della qualità se non era “amica”. Per nostra enorme fortuna, la Vitti è scampata, forse proprio perché donna, perciò in talune menti limitate: “roba non seria”, a cotale demenziale inquadramento politico-artistico. Ci chiediamo come possa lei essere considerata la “Musa di Antonioni” e del suo cinema del silenzio, quando tutti conoscono la logorrea dei personaggi che ha interpretato. Ovvio, Antonioni fa molto intello, Risi, Salce e Sordi decisamente meno. I finti rivoluzionari della cultura, che in futuro meno male nessuno ricorderà, di danni nei hanno causati parecchi. Per converso, quella che dobbiamo rammentare è la nostra diva più moderna, la rivoluzionaria, lei davvero, più dolce del nostro immaginario popolare, che sapeva parlare, caro Antonioni, specialmente di sé: “Ero consacrata alla comicità, convivevo con le mie due facce”.