Pubblichiamo un articolo di Paolo Nori, scrittore di sinistra e firma de La Verità. Un punto di vista originale sulla querelle surreale legata ad un evocato ritorno del fascismo eterno
Oggi non parliamo di un politico ma di un concetto che, inaspettatamente, per me, per lo meno, è al centro della campagna elettorale: l’antifascismo. È una parola semplice, apparentemente chiara, ma è una di quelle parole che, per lo meno per me, ha cambiato il suo significato nel corso degli anni.
Io sono nato nel 1963 e quando ero piccolo, negli anni settanta e ottanta, antifascismo, e la parola ci andava insieme, resistenza, erano parole che sentivo dire dai palchi e dalle tribune dei politici, e che io non credo di avere mai pronunciato: allora non lo sapevo, ma qualche anno dopo avrei letto un libro di uno degli ultimi dissidenti sovietici, Aleksandr Zinov’ev, dove, tra le altre cose, veniva enunciava una legge che, secondo Zinov’ev, governa le nostre società: «Tutto quello che è ufficiale, è falso».
Quando ho letto questa cosa di Zinov’ev, mi è sembrato che questa fosse una legge che valesse sia per i discorsi e per i documenti prodotti dai governanti, che per i discorsi e i documenti prodotti da me in certe situazioni particolari. Quando avevo vent’anni, per esempio, e cercavo lavoro, e mandavo in giro dei curriculum, quel Paolo Nori di cui si leggeva nel curriculum era completamente diverso, da me che lo scrivevo, sembrava uno che aveva così voglia, di lavorare, mente io son sempre stato tendenzialmente uno che non ha voglia di far niente.
È stato allora, credo, dopo aver letto Zinov’ev, che ho capito il senso dell’espressione parmigiana «Essere falso come una lapide», che se c’è una cosa ufficiale, ufficialissima, sono le lapidi e per me, in quei primi anni, l’antifascismo ufficiale, quelle parole che sentivo dai palchi delle autorità erano un po’ così, fumose, retoriche, e false come una lapide.
Mi piaceva così poco, quell’Italia ufficiale dentro cui mi trovavo, che nel 1985, avevo 22 anni, sono andato via dall’Italia, sono andato a finire in Algeria, per un anno e mezzo, e poi in Iraq, e in Iraq mi sono trovato in una situazione che potrei definire latamente fascista, in una dittatura. Era al potere Saddam Hussein (alleato allora all’occidente e in guerra con l’Iran), e una delle prime cose che mi avevano detto, di stare attento a quel che dicevo di lui che parlare male di Saddam c’era la pena di morte.
Ecco io, di persone contro Saddam, cioè di antifascisti, in Iraq, ci ho abitato poco più di un anno, non ne ho conosciuti, o, se li ho conosciuti, non si son fatti riconoscere, da me.
Poi son tornato in Italia, mi son messo a studiare russo, mi sono laureato, e intanto che mi laureavo in Italia è andata al governo la destra, Berlusconi che ha sdoganato, così si diceva allora, il Movimento Sociale Italiano: la cosa ha comportato il fatto che le parole antifascismo e resistenza fossero quasi scomparse dai discorsi ufficiali, governativi e ministeriali, e questo, all’antifascismo e alla resistenza ha giovato, mi sembra, sono ridiventate parole vive, praticabili e praticate.
Finita l’università mi son messo a scrivere dei libri, poi a scrivere sui giornali, e nel 2012 mi hanno chiesto anche di far dei servizi brevissimi in televisione, ogni settimana mi chiedevano di andar da qualche parte, in Italia, a raccontare quel che succedeva, e una volta, in novembre, ero andato a Predappio per il raduno dei fascisti sulla tomba del duce.
Ecco io, prima di partire, di quei fascisti avevo un po’ paura, “E se fanno il saluto romano? – pensavo, – Ma non si può, ma è illegale, ma non possono mica, ma è una vergogna, ma perché non li arrestano?».
Poi eravamo andati, e eravam lì sul viale, a Predappio, era arrivata una corriera vintage, con un autista vestito in modo vintage che quando era arrivato aveva tirato giù il finestrino aveva detto, forte: «A noi!», e a me era venuto da pensare: «A noi cosa?».
Dopo c’era uno, vestito vintage anche lui, con gli stivali di pelle, il cinturone di pelle, il fez, le spalline e tutto che aveva detto: «Eia eia», e due o tre lì intorno avevano detto: «Alalà!». Che io li avevo guardati e avevo pensato «Ma cos’hanno?».
Cioè era come un mondo, sembrava un raduno come di quelli che vivono nel medioevo, cioè non che ci vivono, che lo ricreano, e questi qua, lì, quel giorno lì, ricreavano un mondo che era proprio diverso dal mondo che ci viviam noi tutti i giorni, usavano proprio anche una lingua diversa, stranissima, una lingua dove i cuori erano infiammati, le autorità erano maschie, e infaticabili, e ardimentose, e l’esercito invitto e invincibile e insonne, dove le giornate eran fauste o gloriose, dove le teste eran calde e la sovranità piena, la volontà granitica e i sangui freddi e le folle esultanti, dove tutti i bambini si chiamavan balilla, dove le certezze eran supreme, e i giuramenti sacri, e le camicie nere e dove lo spirito era prevalentemente di sacrificio e tutto questo, però, tutto questo mondo surreale conviveva, lì dove eravamo, a Predappio, con l’universo nostro, quello della crisi, quello degli sconti, del meno venti per cento, e tre calendari del duce 6 euro, che si vedeva che era una cosa che «Dài, si fa per dire».
Solo che poi, quando abbiamo incontrato un signore che aveva ottantasei anni che ci ha detto che lui era partito volontario a diciotto anni, che aveva fatto parte della guardia del duce, e che c’era il suo nome in un libro, e ci ha fatto vedere il libro, e la pagina dove c’era il suo nome, evidenziato con un evidenziatore rosa, e aveva un modo così indifeso, così ingenuo, di esporsi alla nostra telecamera che io, poi, quando ero tornato a casa che avevo trovato qualcuno in rete che si chiedeva «Ma quel raduno là, ma quelli là, che si son trovati là, ma non si può, ma è illegale, ma non possono mica, ma è una vergogna, ma non c’era nessuno che li arrestava?», ecco io, dopo che ero stato là, che avevo visto tutto quell’ambaradam là, avevo pensato che quel signore lì, di ottantasei anni, quella lì era stata la sua vita, e avevo pensato che arrestarlo, cosa vuoi arrestare, la sua vita? E come fai a arrestare una vita? Una vita non la puoi mica arrestare, al massimo ci puoi convivere, e quella lì è una cosa più difficile, avevo pensato, però secondo me è più intelligente.
Da allora, son passati quasi sei anni, non ho ancora cambiato parere. (da La Verità)