Nell’istante doloroso, che prima o poi tocca a tutti, della scomparsa delle certezze: lo sbandamento è comprensibile. Come pure l’esplicitazione, il racconto, fino al superamento psicologico e alla possibilità di capire che cosa si è pensato nel buio della malattia. Hitchens si fece inviato nel proprio cancro, e fu spietato. Daria Bignardi lo rivive attraverso un romanzo: “Storia della mia ansia” (Mondadori) ricreando un mondo leggermente diverso dal suo, ma che comunque è il suo. La protagonista della storia è una autrice che salta dalla tivù al teatro: Lea Vincre, sposata in seconde nozze col pragmatico Shlomo, che non dice più “ti amo” ma c’è sempre quando serve, e intorno hanno dei ragazzini “sdraiati”. C’è tutto il racconto dell’operazione, delle chemioterapie, come pure la conoscenza-innamoramento di un malato più giovane: Luca; e con lui l’occasione di vivere l’euforia dei naufraghi che ritornano alla normalità o almeno ci provano. La Bignardi vorrebbe essere Safran Foer, ma non riesce a farci sentire lo smottamento familiare, né lo slancio di un amore di contrabbando: apparecchia, elenca, gira, morde le lenzuola, ma le manca la grande avanzata. In questo mondo contemplativo, tra case di montagna e conseguenti passeggiate nel bosco, case al mare e tramonti, non c’è mai l’uscita dalla cronaca ospedaliera e l’entrata nel romanzo che ti inchioda. Farà anche tanto bene il racconto verità, seppure velato e trasposto, ma la nostra scocciatura transeunte se ha una occasione è nel perdurare della scrittura, che qua manca. (dal Messaggero)