Il 9 marzo Margherita Oggero e Maurizio Cabona presenteranno a Milano “L’ultimo di noi”, il romanzo della scrittrice e giornalista francese Adélaïde de Clermont-Tonnerre. Qui l’intervista di Maurizio Cabona all’autrice con una riflessione storica e sociale su Francia, Europa e il ritorno “in negativo” delle passioni degli anni settanta
Più della Germania, è la Francia ad avere un passato che non passa. Il suo ‘900 schiera il maresciallo Philippe Pétain come “scudo” e il generale Charles de Gaulle come “spada”; poi François Mitterrand, vicino a Pétain fino al 1944, dal 1981 erede De Gaulle: tutti variamente coinvolti nel crollo del giugno 1940. Il 18 di quel mese De Gaulle dice da Radio Londra: “La Francia ha perso una battaglia, non la guerra”. E proclama unico legittimo il suo governo inventato grazie a Churchill, miraggio di uno Stato nato senza un popolo, né un territorio. Perduto l’Impero coloniale (mezza Africa, Indocina…) tra 1945 e 1962, nel 1969 deposto De Gaulle da un referendum che non lo metteva direttamente in causa, l’erosione del mito gollista – quello che la Francia aveva vinto contro la Germania – è inevitabile. Ma quel mito è stato fondamentale perché la Francia si svincolasse per decenni dall’egemonia statunitense.
E’ proprio uno storico statunitense, Robert Paxton, a raccontare nel 1973 ai francesi quello che, peraltro, sapevano benissimo, ma avevano rimosso: maggioritario consenso per Pétain (e per la sua legislazione razziale) ed esilità della Resistenza, almeno fino a metà 1944. Da allora centinaia di libri di autori francese ribadiscono che i compagnons de la Libération erano molti meno dei collabos. E che di entrambi s’infischiava la Francia profonda.
Come lavorare in un Paese dedito, ufficialmente, al rimorso senza allinearsi? Ci prova Adélaïde de Clermont-Tonnerre con L’ultimo di noi (trad. di Margherita Belardetti, Sperling & Kupfer, pagg. 383, euro 18,90), proiettando le angosce francesi dagli anni ’80 in poi negli Stati Uniti anni ’70. L’ultimo di noi è infatti un titolo che si riferisce a un bimbo nato a Dresda nel febbraio 1945, portato negli Usa, adottato da madre normanna e adattato al sogno americano: “Vince chi muore più ricco”.
Questioni di origini. Colpe irredimibili. Nemesi implacabili. Nella società del benessere, che ha ereditato dal presidente Kennedy la guerra francese in Indocina, affiorano i baby-boomers, i numerosissimi figli del dopoguerra.
Signora, L’ultimo di noi in sintesi…
“… Amore proibito in epoca permissiva”.
Protagonista?
“Werner Zilch. Nasce a Dresda sotto il bombardamento del 1945. Orfano, è l’ultimo di una famiglia influente che ha perduto tutto”.
Questo è l’inizio. E poi?
“Venticinque anni dopo lo ritroviamo a New York. Adottato da bambino da una coppia della classe media americana, è un rampante in cerca di affermazione. Ignora il suo passato e i genitori biologici. Il suo folle amore per Rebecca, giovane artista, figlia di uno degli uomini più potenti degli Stati Uniti, lo costringerà a riaprire la pagina dolorosa delle sue origini”.
Perché ha scritto questo libro?
“Per evadere, portando il lettore con me. Talora la quotidianità mi soffoca. Mi serve vibrare in una realtà parallela. Scrivere è libertà assoluta. Nessuno ti dice che cosa fare, né dove andare”.
E’ un romanzo storico?
“E’ un romanzo che ha una trama storica: Manhattan in effervescenza, ai tempi di Bob Dylan, Patti Smith, Andy Warhol e della Factory… Avendo in contrappunto la fine della seconda guerra mondiale in Europa e l’operazione segreta Paperclip, che permise al professor Von Braun, inventore dei missili tedeschi V2, di sfuggire ai processi politici del dopoguerra e di esser accolto sul suolo americano con 117 membri del suo gruppo. In pochi anni egli prenderà la direzione di quella che diverrà la Nasa e manderà gli americani sulla Luna”.
Che rapporto c’è tra Von Braun e Andy Warhol, tra Dresda e Manhattan?
“Queste epoche sono legate al di là della trama del romanzo. Con questo libro tento di capire da dove venga la profonda malinconia attuale. Certo, attraversiamo una grave crisi, ma essa non è paragonabile a ciò che hanno conosciuto i nostri genitori o nonni. Loro hanno vissuto l’inumano, l’indicibile, eppure nei primi tre decenni del dopoguerra c’erano gioia di vivere e sfrenata creatività… Il mese di ferie pagate era una fuga in avanti. Con un passato atroce come la seconda guerra mondiale, occorreva credere nel presente e nell’avvenire. Oggi è l’inverso”.
Lei ama l’invenzione…
“… E non l’inclinazione al reale impadronitasi di letteratura, cinema, arte in genere. Romanzesca o amorosa che sia, preferisco la finzione, spesso più ‘vera’ del vero. Il bisogno di attingere all’esistente talora mi pare un’ammissione d’impotenza. Certi autori ne fanno libri meravigliosi, ma io sarò sempre più attratta dall’invenzione, appunto, cioè da chi crea mondi dove rifugiarsi quando non si sopporta il nostro”.
C’è poi la questione del doppio.
“La tragedia sottesa a questa storia nasce infatti da una relazione tossica tra fratelli nemici, sposati ad amiche inseparabili. Il loro odio si ripercuote su due continenti, due generazioni e vari decenni. Il tema del doppio percorre tutto il romanzo, specie nella profonda amicizia tra Werner e Marcus. Il mio eroe non regge la solitudine. E’ ambizioso, determinato, ma non individualista”.
E’ anche la storia di una passione…
“…Irreprimibile. L’attrazione tra Werner e Rebecca è immediata, potente, carnale. Werner vuole regnare, Rebecca liberarsi dal suo ambiente. Per lui, lei è la donna dell’ascesa; per lei, lui è l’uomo dell’emancipazione. Nulla pare opporsi a loro. Una rivelazione tronca questo slancio. Un divieto troppo forte per amarsi ancora…”
Gran parte dell’Ultimo di noi si svolge negli anni ‘70. L’attirano tanto?
“Un po’. Sono la gioventù dei miei genitori: tutti, credo, vorremmo genitori giovani. Poi perché sono un decennio affascinante. I soldi, allora, erano molto, ma non tutto. Quindi è un periodo d’intensa creatività musicale, artistica, letteraria, ma anche d’intensa libertà: si guida veloce, si fuma di tutto, si beve molto e si va a letto con chi si vuole, senza inquietudine e retro-pensieri. C’è uno slancio formidabile. Un sogno folle di cambiare il mondo”.
Que reste-t-il de ces beaux jours?
“Soprattutto l’essenziale delle tematiche degli anni ‘70 è divenuto ciò che oggi preoccupa. Nel bene: salvare il pianeta, realizzare un’economia partecipativa, solidale, puntare alla decrescita, slow food, tendenza nata in Italia. E nel male: estremismi, terrorismi, indipendentismi, ecc…. Ma negli anni ‘70 tali idee nascevano dalla prosperità; oggi rinascono dalla crisi. Siamo il negativo dei ‘70”.