Entrare in un cellulare, essere trasportati fino al cancello o portone esterno di un carcere, con le manette ai polsi, poi l’ingresso nell’ufficio matricola con tutte le procedure lunghe e penose. Sbattuti ad attendere il proprio turno nel transito (celle provvisorie vicine all’ufficio), poi la chiamata e la perquisizione, le foto segnaletiche, la presa delle impronte digitali sul brogliaccio (si fa ancora così?), la consegna degli effetti personali (che vengono conservati nel magazzino), l’assegnazione nella cella d’isolamento per almeno due-tre giorni, fino all’interrogatorio del magistrato. Poi, l’assegnazione “in compagnia”, la ripartizione dei compiti nella cella, gli equilibri fra detenuti e fra comuni e politici, fra criminalità organizzata e piccoli delinquenti ecc. E poi l’iter per ottenere un colloquio, la domandina per richiedere un oggetto, per parlare con l’educatore, con l’avvocato, come gestire il conto corrente e la spesa allo spaccio ecc.
Insomma, quello che sembra un “collegio“, per chi si è comportato male, diviene qualcosa di più: un girone dantesco che con il tempo mostra gli aspetti di pena ulteriore, sovrapponibile a quella decisa dalla Corte: sovraffollamento nella cella, tensione con altri detenuti, tempi lunghi per una visita specialistica (proprio come fuori…), per ottenere una risposta dalla direzione del carcere, per sapere se si può essere ammessi fra i lavoranti ecc. Tutto questo inframmezzato da momenti in cui si attendono con ansia notizie da casa, si vivono non sempre bene i rapporti con gli agenti, si svluppa la psicosi dell’abbandono da parte di amici/fidanzata/famiglia, lo sviluppo di fissazioni: l’igiene, la smania del sesso (quale, se si è dietro le sbarre e i cancelli?), il timore di contrarre malattie, il timore di perdere la forma fisica che spinge a un iperattivismo ginnico (nelle carceri del Sud è molto diffuso il “bigliardino”, percorrere i pochi metri di una cella o del passeggio ad adatura veloce, per fare movimento e per provare a stancarsi un po’…), la tv come unico elemento di contatto con l’esterno (quotidiani ci sono, ma chi lilegge?) e il rischio di divenire teledipendenti. La voglia di parlare, di confidarsi, sempre sconsigliablie con i compagni di pena…
Di libri sul carcere ne sono stati scritti tanti (spesso da chi non è stato mai dietro le sbarre) e i racconti di casi limite sono stati spesso estremizzati, specie nelle versioni cinematografiche (Papillon, Fuga da Alcatraz, Fuga di mezzanotte ecc.) con l’esito di dare implicitamente una visione edulcorata del carcere ordinario. Nessuno però ha parlato della quotidianità, della vita fra detenuti, di come si vive e come si evitano guai dietro le sbarre ecc.
Due detenuti, Gilberto Cavallini ed Erminio Colanero, “con esperienza nel settore” hanno deciso di scrivere un agile vademecum del detenuto che non solo offre una visione dei problemi quotidiani, ma offre anche consigli, illustra certe realtà ignote a chi non ha mai superato la soglia del carcere, riporta gli schemi – utili – delle domandine da presentare alla direzione, al magistrato di sorveglianza ecc.
E’ un viaggio sapido e veritiero far alcune dinamiche carcerarie ma offre, in prospettiva, anche una lettura sociologica di come si vive in un microcosmo che rimanda a certe logiche che sono riprodotte anche nella società: chi vuole essere leader, chi vuole sfangarsi inimicizie, come farsi voler bene, come tenere rapporti con gli agenti e soprattutto con i compagni di cella, che fare, dopo un periodo di buona condotta, per lavorare all’esterno ecc. Un vademecum che forse non serve ai detenuti perché quelle cose le vivono quotidianamente, ma che serve senz’altro a quanti non hanno idea di cosa sia il carcere e vogliono conoscere in maniera diretta, senza giri di parole e con una buona dose di consigli, ciò che avveiene dietro quei muri di cinta al di là degli stereotipi e di certe rappresentazioni di film…
Cavallini, Colanero, Vademecum del detenuto, Aga ed., pagg. 109, euro 11,00; (ordini: orionlibri@gmail.com)