“Biondo era e bello e di gentile aspetto”, così Dante Alighieri descrisse il nobile portamento del re di Sicilia, Manfredi di Svevia, nel III canto del Purgatorio, che il Sommo Poeta incontra tra le anime degli scomunicati. Il sovrano venne ucciso nella battaglia di Benevento, il 26 febbraio 1266, quando i suoi sogni di gloria si infransero contro le armature dei cavalieri di Carlo d’Angiò, come racconta Paolo Grillo nel suo saggio L’aquila e il giglio. 1266: la battaglia di Benevento (Salerno Editrice, 2015),
Un re nobile, un principe bruto
“Il mito di Manfredi nacque subito dopo la sua morte, ma si affermò davvero solo fra Otto e Novecento”, scrive Paolo Grillo, “con finalità ideologiche chiaramente evidenti, miranti a identificare nel suo regno una prefigurazione dello Stato nazionale italiano” (p. 14). Tra i padri putativi del Risorgimento italiano venne annoverato anche Manfredi di Svevia: il sovrano napoletano avrebbe infatti tentato di unificare la nazione italiana, dovendo però far i conti con la reazionaria Chiesa Cattolica, considerata da sempre nemica dell’Unità d’Italia. Carlo d’Angiò era, invece, un principe malvagio e avaro, al soldo del papato. Con le armi, si affermava, aveva ritardato di secoli la nascita del regno italiano. I versi danteschi su Manfredi furono utili per creare l’immagine di un re bonario e virtuoso, le cui altezze morali si riflettevano nel suo portamento. Al contrario, il principe angioino era descritto come un uomo gretto e brutto d’aspetto. “In una narrazione volutamente sorda alle contemporanee riflessioni della storiografia più agguerrita”, afferma Grillo, “per decenni venne proposta una lettura manichea dei due personaggi, nella quale tutto il bene stava dalla parte di Manfredi e tutto il male da quella di Carlo, rendendo l’immagine di quest’ultimo talmente negativa che anche la storiografia cattolica esitava a prenderne le difese.” (p. 16) Così si perpetuò il mito di Manfredi ghibellino e anticlericale, come lo fu, in parte, il movimento risorgimentale italiano.
Era bello, biondo e illegittimo
Manfredi era figlio illegittimo dell’imperatore Federico II di Svevia, che sposò sua madre, Bianca Lancia, molti anni dopo per assicurargli un titolo nobiliare, il Principato di Taranto. Il giovane principe aveva però altre ambizioni: aspirava a diventare re di Sicilia. La corona era stata data al fratellastro, Corrado, e, alla sua morte, al figlio minorenne, Corradino, che i familiari portarono in Germania per proteggerlo dallo zio. Si sospettava infatti che Manfredi avesse avvelenato il sovrano, assumendo illegalmente la reggenza del nipote e autoproclamandosi re di Sicilia. I nobili del regno e il papato lo accusarono di usurpazione e Urbano IV lo scomunicò nel 1261: Manfredi aveva rifiutato di riconoscersi vassallo del papa, secondo gli accordi di Melfi del 1059. Ribellioni e sedizioni animarono i primi anni del regno manfrediano e a Roma si lavorò a lungo per mantenere questo stato di cose. Nel frattempo la cancelleria pontificia si adoperò per lanciare una crociata contro il re usurpatore.
Protetto da Dio
La Chiesa Cattolica chiamò in soccorso il principe Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia. Era un nobile senza terra, come si affermava all’epoca, molto propenso a conquistarsi un regno, cosa ben degna per un membro di una casa reale. Manfredi, nel frattempo, tentò ben due volte di assaltare Roma senza riuscirsi, poiché alcune sconfitte nella Campagna romana demoralizzarono le sue truppe: i soldati credevano che fosse stato Dio a punirli per aver attaccato la sua Chiesa. Gli eserciti angioini, invece, durante discesa nel Sud Italia, riuscirono a sbaragliare il fronte ghibellino lombardo, alleato del re di Sicilia, dando coraggio ai guelfi italiani. Si credeva che fosse la Provvidenza a guidarli alla vittoria, perché avevano accettato di difendere Roma e il cattolicesimo. Manfredi non si arrese e fino all’ultimo provò ad arrestare la discesa di Carlo verso Napoli e il Mezzogiorno. Da Roma, dove il principe angioino era arrivato via mare, superando miracolosamente il blocco navale siciliano, l’esercito di Carlo procedette verso la Campania, sbaragliò la resistenza manfrediana a Cassino e si accampò nei pressi di Benevento.
Era il 26 febbraio 1266 e fuori dalle mura della città campana avvenne il confronto finale tra Manfredi e Carlo. I due eserciti si prepararono ad annientare l’avversario e fu un bagno di sangue. I cronisti dell’epoca raccontano che il massacro si protrasse per ore e segnò la totale disfatta dello Svevo. Gli impavidi cavalieri francesi sgretolarono la fragile resistenza siciliana e Manfredi venne ucciso mentre combatteva strenuamente con i suoi uomini. Carlo tumulò il suo rivale con tutti gli onori militari, senza il rito religioso per via della scomunica. Nel Mezzogiorno regnava adesso un nuovo re, Carlo d’Angiò, che si apprestava a pacificare con la forza le città ancora fedeli agli Svevi.
Paolo Grillo. L’Aquila e il giglio. 1266: la battaglia di Benevento, Salerno Editrice, 132 p., 12 euro