Nel giorno dedicato alla memoria dei ragazzi uccisi nella strage di Acca Larentia, pubblichiamo un estratto dall’introduzione dell’autore Luca Telese al suo nuovo libro Cuori Contro per Sperling&Kupfer. Il valore che ebbero, per gli assassini, le uccisioni di quei giovani, di quegli uomini innocenti e la storia che ruota attorno alla mitraglietta Skorpion, divenuta simbolo di un’epoca di violenza, misteri su cui troppe furono le “rimozioni” pubbliche e private.
Solo dopo la pubblicazione di Cuori neri e dopo le lettere ricevute da centinaia di lettori, però, avevo messo a fuoco un elemento decisivo che nel momento in cui avevo licenziato il libro non mi era così chiaro. Quasi ognuno dei delitti che avevo scelto di raccontare si era rivelato a suo modo un delitto «iniziatico». Era, cioè, il punto di partenza di una banda armata, l’arruolamento, anche personale, in un esercito che in quell’occasione trovava il suo battesimo. Gli omicidi su cui avevo deciso di provare a far luce riguardavano militanti missini, ragazzi del Fronte della gioventù, di Terza posizione, o vittime di scambi di persona in nome dei quali si presumeva che fossero di destra: i colpevoli e gli indiziati, invece, erano tutti futuri protagonisti della lotta armata.
Proviamo a leggere quella sequenza cronologica in modo storico-analitico prestando attenzione alle future biografie di chi vi era rimasto implicato.
Il rogo di Primavalle era stato il primo delitto di quella parte di Potere operaio che a partire dal 1973 avrebbe scelto la lotta armata. Un ennesimo paradosso voleva che anche molti di coloro che nell’organizzazione avevano criticato l’attentato della cosiddetta Brigata Tanas (il gruppuscolo più radicale che aveva organizzato l’azione), poi, avevano finito per imbracciare le armi. Il vortice era stato così forte che la stessa scelta aveva accomunato i «falchi» e le «colombe» del 1973.
L’omicidio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, a Padova, nel 1974, era stato il primo delitto delle Brigate rosse. «Incidente sul lavoro», aveva dichiarato il più importante dei condannati, Renato Curcio. Solo che da quel momento in poi gli «incidenti» non avevano più avuto fine, rivelandosi non l’eccezione, ma la norma. Quanto era giusta la lunghissima battaglia combattuta da Silvia Giralucci, figlia di Graziano, perché questo dato oggettivo venisse accolto da tutta una città come un fatto storico, e non come un dettaglio scomodo. Mai avrei pensato che quel capitolo, che nel mio libro iniziava davanti a una targa appesa a un palo, avrebbe avuto un epilogo simbolicamente importante come quello che sto per raccontare.
Ma la catena dei delitti iniziatici proseguiva: nel 1975 Mikis Mantakas era stato ucciso da due ragazzi finiti sotto processo, poi scarcerati, e infine sfuggiti alla giustizia. Uno di loro – Alvaro Lojacono – si sarebbe unito alle Brigate rosse, al commando che avrebbe rapito Aldo Moro. E il secondo – Fabrizio Panzieri – sarebbe entrato in un’altra temibile banda della stagione dell’odio, le Unità comuniste combattenti. I due ex guerriglieri, ancora oggi, sono latitanti.
Anche quello di Sergio Ramelli, massacrato a colpi di chiave inglese sempre nel 1975, era stato un delitto iniziatico. Questa volta a portare a termine l’azione era stato un commando del servizio d’ordine di Avanguardia operaia.
Nel processo per l’omicidio di Mario Zicchieri – anche lui assassinato nel ’75 – erano stati coinvolti alcuni ex militanti dei Co.co.ce (il Comitato comunista di Centocelle) che dopo quel delitto avrebbero costituito l’ossatura della colona romana delle Brigate rosse. Erano stati condannati, in primo grado, due uomini di cui parleremo tra poco (Germano Maccari e Valerio Morucci) che avrebbero preso parte a loro volta al sequestro Moro, con ruoli, come sappiamo, di primissimo piano.
E sempre un omicidio iniziatico era stato quello che ebbe per vittima Enrico Pedenovi, nell’aprile 1976. Il dirigente missino, infatti, era stato freddato nella sua macchina da un gruppo di militanti extraparlamentari raccolti intorno alla rivista Senza tregua. Gli uomini, cioè, che uscendo da Lotta continua dopo il suo scioglimento avrebbero dato vita, proprio a partire da quel delitto, alla più famigerata delle bande armate degli anni Settanta: Prima linea.
L’ultima storia sconvolgente, e insieme esemplare, era quella di un’arma. Qui, oltre all’iniziazione, avevamo la prova di un arruolamento. Mi riferisco alla mitraglietta Skorpion che (impugnata da mani ancora oggi ignote) aveva cominciato la sua carriera davanti alla sezione romana di Acca Larentia ammazzando due giovani attivisti missini, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, proseguendola poi mirando agli obiettivi più diversi. I capitoli della storia di quella Skorpion erano stati scritti dalle perizie balistiche: prima con l’omicidio dell’economista Ezio Tarantelli, poi con quello del sindaco repubblicano di Firenze Lando Conti e infine con l’agguato mortale al senatore democristiano Roberto Ruffilli. La traiettoria di questa mitraglietta, dalle raffiche forsennate dell’Appio latino agli omicidi selettivi brigatisti, era un simbolo potentissimo, un inquietante «bignami» della lotta armata che non aveva nemmeno bisogno di essere collegato all’identità di un killer per spiegare il senso di una progressione di morte e di un apprendistato criminale. La Skorpion, dal punto di vista storico, era ancora più importante di chi l’aveva impugnata: era la testimonianza fisica, meccanica, di un passaggio dall’autonomismo armato al brigatismo organizzato. Quando nel 2013 è morto Jimmy Fontana, il cantante che incredibilmente aveva acquistato quell’arma e ne aveva smarrito le tracce prima di quella iniziazione criminale, molti necrologi hanno ricordato questa storia, che lui considerava una macchia. Durante un’intervista mi aveva detto, con uno sfogo che era sicuramente sincero: «Amavo le armi, ma quella Skorpion era maledetta. Mi ha rovinato un pezzo di vita». Era la tragedia di un uomo che dal gioco era passato al dramma, ma a quanti altri le armi avevano riscritto la biografia?