La già da tempo incessante pubblicazione dei contributi “giornalistici” di Julius Evola ha svolto un ruolo decisivo nell’ allontanare dal pensatore romano la coltre della fama di pensatore solitario, solipsistico, ritirato nell’eremo di una aristocratica superiorità spirituale timorosa di qualsivoglia pur rapsodica discesa dalle limpide vette della Tradizione.
Ebbene, la presente riedizione degli scritti evoliani sulla musica, impreziosita dalla curatela di Piero Chiappano e dalla, teoreticamente densissima, prefazione di Massimo Donà, consente di operare un ulteriore passo nella direzione della chiarificazione di una tra le figure più interessanti e controverse del ’900 (non solo) filosofico europeo. L’Evola che ci viene restituito da queste pagine è infatti un Evola tutto immerso nel suo tempo storico, attento esegeta e scrupoloso indagatore della modernità e delle sue molteplici manifestazioni. Sì che anche la riflessione sulla musica si profila nel “sistema” evoliano come tappa decisiva per la comprensione di una realtà, quella europea degli anni a cavaliere della seconda guerra mondiale, che nel sempre più desolante ed omogeneo spettacolo delle sue rovine ancora si mostra in grado di indicare le cime luminose di una sempre presente Origine.
Il titolo di questa silloge ben riassume l’arco tematico coperto dagli scritti in essa contenuti. Wagner e il jazz rappresentano infatti i poli dialettici che orientano la riflessione evoliana sulla musica. Nella sua prefazione, Donà muove da un’importante rivalutazione di Evola filosofo della musica e interprete del fenomeno jazz in relazione polemica con il “progressista” Adorno, tutto intento a costringere le più tipiche espressioni musicali novecentesche nel letto di Procuste di un’interpretazione rivolta a rintracciare in tali espressioni poco più che gli omologanti prodotti dell’ “industria culturale”. Evola si rivela ben più attento esegeta, ravvisando nel jazz i motivi della definitiva messa al bando del sentimentalismo borghese ottocentesco, ben incarnato dalla forma “tragico-patetica” di un Beethoven o da quella “eroica” dello stesso Wagner. Senonché, l’ambiguità di fondo che contraddistingue il jazz consiste nella sua collocazione storica, nel suo porsi al crinale di un’epoca in declino, quella borghese per l’appunto, e alle soglie di un possibile nuovo inizio (è appena il caso di ricordare che la primissima pubblicazione di Filosofia dello “jazz” risale al 1934, stesso anno di pubblicazione della monumentale Rivolta contro il mondo moderno, ciò che suggerisce una collocazione della stessa riflessione “musicale” evoliana nella indagine di più ampio respiro intorno alla filosofia della storia e alla “morfologia delle civiltà”). È lo stesso Evola a segnalare tale ambiguità, chiedendosi se l’opera dissacratoria e demistificatrice del jazz rappresenti un «segno di crepuscolo o segno di superamento?» (p. 71). Domanda destinata a rimanere inevasa, anche quando, circa un ventennio dopo, Evola tornerà sul tema nelle pagine di Cavalcare la tigre pubblicate in appendice nella presente silloge. Ma il fatto che anche nelle vere e proprie opere di Evola manchi una risposta determinata non è ascrivibile ad una svista del pensatore: dove le più recenti espressioni musicali potranno condurre, «questa è cosa che dipende da quel che l’uomo di domani saprà chiedere a sé stesso» (p. 159).
Per quanto concerne l’altro polo, quello incarnato da Wagner, Evola individua nel compositore tedesco, già vittima degli strali nietzscheani, il pioniere di un concetto affatto moderno, secolarizzato e dunque “umanistico” di arte. Egli ha anteposto la propria soggettività artistica ai contenuti “tradizionali” delle sue opere, mortificando tali contenuti proprio nel mentre si presentava come il loro esaltatore. Esemplare la storia del Graal, condotta da Wagner «dal piano del mistero “solare” e imperiale della “pietra di luce” a quello di una storietta mistico-cristiana moralizzata dall’obbligatorio complesso colpa-amore-redenzione» (p. 80).
Evola avverte dunque in questa troppo umana arte un “pericolo”. Pericolo che, e il pensatore lo sa bene, non sussisterebbe se l’arte si limitasse a svolgere una mera funzione “estetica”. Se l’opera d’arte non avesse altro ruolo che quello di venire disinteressatamente contemplata da coloro che ne fruiscono, non occorrerebbe darsi tanta pena per condannarne le derive anti-tradizionali. Evola manifesta qui la piena consapevolezza dell’importanza che l’arte riveste nella fondazione e nel mantenimento della polis, nel creare un ponte tra l’umano e il sovrumano (proprio nell’articolo dedicato al Pericolo wagneriano il nostro richiama la figura tradizionale dell’artista-vate, colui che si fa portavoce del trascendente). La riflessione evoliana dunque, nel porre una questione a tutta prima “contingente” ed immediata, si riconnette alle origini del pensiero filosofico occidentale, a Platone e alla sua condanna dei poeti, del poiein inteso come quell’ affatto particolare “forma del fare” in cui a palesarsi è l’impossibilità di essere ricondotta al logos filosofico, il suo sfuggire alle pur possenti maglie del principio di non contraddizione.
Tale è la portata delle questioni che questa aurea raccolta è in grado di chiamare in causa.
Raccolta che assume a tratti le caratteristiche del diario di viaggio, come quando l’autore ripercorre le proprie esperienze tra i locali notturni parigini o in squallidi locali alla periferia di Bucarest, o descrive il Fasching viennese, per giungere fino all’impietosa condanna rivolta alla deriva musicale incarnata dalla canzonetta italiana, descritta come un «tipo piatto, falso, sdolcinato, appiccicoso, sfaldato, retorico» (p. 123).
Le pagine evoliane sulla musica si rivelano in grado di far compiere al lettore un vero e proprio viaggio, accompagnandolo e guidandolo lungo l’evo più controverso e contraddittorio dell’intera storia umana, viaggio condotto sui ritmi primordiali di uno Stravinskij o sulle note frenetiche ed estatiche di un’orchestra tzigana. Ecco allora che queste pagine non possono, e sia Donà che Chiappano ben lo rilevano, non ricondurre chi le legge alla giovanile esperienza dadaista del Barone, rievocando le folgoranti parole del suo trattato Arte astratta: «Occorre saper non vedere, non trovare, non avere: porsi nel nulla, freddamente, sotto una volontà lucidissima e chirurgica. E questo è per la prima volta creazione: egoismo e libertà!».
*Da Wagner al Jazz. Scritti sulla musica 1936-1971 di Julius Evola (a cura di Piero Chiappano, prefazione di Massimo Donà), Jouvence, Milano 2017, pp. 181, € 16,00.