L’eternità del mito è l’essenza di una delle maggiori (e neglette) rappresentazioni che solo il coraggio e la passione infinita di un gigante quale è Peppe Barra induce a vivere, rivivere, raccontarsi e dispiegarsi ogni Natale. La Cantata dei Pastori è un presepe che si incarna, le statuine gelate dal freddo della Santa Notte e dalla rigidità della creta rappresa si scuotono da dosso l’ombra e la polvere degli sguardi, ora estasiati, ora indifferenti. E vivono, appunto.
Quest’anno la Cantata dei Pastori è di scena al Teatro Politeama a via Monte di Dio, a Napoli. E lo sarà fino all’Epifania. Il pubblico ha premiato, e continua a farlo, l’amore che Peppe Barra e i suoi trasfondono nella recita dell’antica rappresentazione sacra, uscita dalla penna e dalla mente del gesuita palermitano Andrea Perrucci, nell’anno domini 1698.
È la storia della Sacra Famiglia che, partita da Nazareth, coglierà a Betlemme il destino della nascita di Nostro Signore. Il viaggio di Giuseppe e Maria, reso impossibile dalle insidie degli inferi e miracolosamente spianato dalla cura del Cielo, s’interseca alle grottesche (dis)avventure di Razzullo e Sarchiapone, le figure comiche della Rappresentazione. In lingua napoletana, la storia si muove su ogni piano, dalla recita al canto, al ballo e, nell’allestimento al Politeama, persino nei giochi di fuoco.
Maria guadagna il palco su una sedia gestatoria, seguita da una processione austera e solenne. Incontra la zingara che le predice la nascita e il destino del Salvatore e che le chiede, quale mercede, solo la sua benedizione. È in questa primissima scena che si disvela il senso – almeno quello dichiarato – dell’intera rappresentazione. La zingara, erede della tradizione divinatoria tipica del paganesimo, ministra d’ogni superstizione, si converte davanti al Bambinello (che ancora nemmeno è nato). Anticipa i Re Magi (che mai sono presenti qui), che arriveranno alla Grotta solo dopo la sua nascita. L’incipit dichiara così, inequivocabilmente, l’intenzione, didascalia, d’ammaestrare la gente alla vera fede dissipando quelle che per un gesuita sono le tenebre dell’ignoranza. In realtà, come intuisce il genio di Paolo Isotta, la Cantata dei Pastori si trasfonde nell’inno più grande alla tradizione precristiana, greca, italica e latina.
Centrale è l’Angelo (sempre interpretato da una donna); abbatte il Demonio che si para minaccioso sulla strada di Giuseppe e Maria. È splendente di luce, il fulgore del suo scudo abbaglia il Male e lo ammansisce. Non è poi così lontano dall’iconografia omerica di Pallade Atena, la dea glaucopide al cui cospetto persino il bellicoso Ares trema di paura. Sono satiri i diavoli, è autenticamente bucolico Benino e, forse ancor di più, il solido padre che lo ha educato all’attesa del Messia. Pii e già devoti, essi interpretano dai loro sogni il vaticinio della venuta di Cristo.
Ma più antichi e profondi, ancora di più, sono Razzullo e Sarchiapone. Se i dialoghi tra gli altri personaggi della Cantata sono in versi, flautati e ieratici, quelli tra Razzullo e Sarchiapone, tra questi e il pubblico, sono graziosamente sboccati, davvero popolari.
Eternamente morsi da una fame “canina”, sbranati dall’appetito, pigri e indolenti: sono due maschere che si muovono su canovaccio, come da classica regola della Commedia dell’Arte. Che però, a sua volta, deve quella regola ai più antichi teatri italici e pre-romani; le maschere dei due personaggi della Cantata fondono quelle antiche dell’Atellana. Lo scrivano (fu questa scelta del Perrucci solo un caso o un bel tiro da prete per una satira agli intellettuali?) Razzullo, inviato in Palestina per fare ‘o ‘ncensimiento (il censimento), pare rispecchiarsi proprio nell’ancestrale archetipo di Bucco, il “bocca aperta”, fanfarone, ciarlatano, rapidissimo parlatore e avidissimo mangione. Eccezionale suo interprete, da quasi quarant’anni, è proprio Peppe Barra.
Sarchiapone, barbieraccio goffo e impertinente, gobbo e deforme, è d’aspetto uguale a Dossennus, ma di questi ha perduto la saccenza e poco ha conservato dell’antica astuzia, sostituita da un’incredibile quanto incrollabile fame. Appare quasi come un fauno, ferino e disgraziato: un vero demonietto. Tra i più grandi interpreti del ruolo c’è, senza dubbio, la grandissima Concetta Barra, vera istituzione della musica e del teatro napoletano e madre di Peppe. Il suo è un Sarchiapone geniale, eterno e lievissimo. Negli anni, poi, si sono avvicendate le interpretazioni strepitose di Giovanni Mauriello, Salvatore Esposito, Teresa Del Vecchio. Ora è il turno di Rosalia Porcaro che si discosta parzialmente dalla tradizione rendendo Sarchiapone meno leggiadro, più fisico, accentuando l’aspetto più materiale della maschera.
Eppure, senza questi due, Razzullo e Sarchiapone, il miracolo della nascita di Gesù non ci sarebbe stato. È Razzullo che esorta il pescatore titubante ad accogliere la Sacra Famiglia sulla barca, è sempre lui che, all’Osteria, indica a Giuseppe e Maria, il riparo della Grotta a scorno dei diavoli che presidiano con cent’occhi per evitare il compiersi dell’Incarnazione.
È questo un messaggio ancora più rivoluzionario e, al contempo, antico e davvero cattolico e che nella Cantata sembra avverarsi al canto soave e tenerissimo, intonato dal piccolo Benino, di Quando nascette Ninno, quello dell’apocatastasi. di cui si fece paladino Origene, della salvezza – nel giorno dei giorni – per tutte le creature di Dio persino per il demonio.
Nelle intenzioni di Perrucci, nelle frasi chiare e altisonanti che il testo impone al Diavolo di urlare, ci dovrebbe essere il trionfo del Bene e la condanna del Male, sconfitto dal Redentore e sbeffeggiato dallo stesso Razzullo che piglia a mazzate il demonio-oste affidandosi al santo nome di Dio. Senza sconti. E così sarebbe se non fosse che l’intera Sacra Rappresentazione si gioca sullo sfondo di una Napoli sospesa nel mito che tutto ingloba in sé e niente lascia fuori di sé. E che non può neanche immaginare che il Salvatore venga al mondo solo per salvare pochi eletti, per donare la sua luce facendo distinzioni.
I diavoli, che nemici della Luce sono per loro scelta, ora che questa ha vinto nella grotta di Betlemme, fuggono. Scappano dall’amore di Dio, non dalla sua punizione. La loro è una sconfitta inesorabile perché scelgono per orgoglio di fuggire all’abbraccio della Luce, del Dio che sarà tutto in tutti, che brama di riaccoglierli. Nelle tenebre si rifugiano, l’incarnazione è solo l’avviso del tremendo destino che li attende, quello del ritorno al Padre, cosa di cui hanno sommo terrore.
Se quei diavoli sono emanazione diretta della paganità rurale, dei satiri e dei fauni, per un Inferno che fugge c’è un Sarchiapone, senza orgoglio ma con tanta umiltà incosciente, che si salva. “Sarai santariello” gli promette l’angelo. E qui c’è un momento di assoluta e altissima tenerezza. Lui comprende ma non capisce la promessa e sogna il suo Paradiso nel Paese di Bengodi, concetto rimarcato da una fugace battuta di Razzullo.
Una favola così è un patrimonio prezioso. Una tradizione vera, lontana dal gesso dei luoghi comuni che uccidono lo spirito e l’anima dei popoli, che dobbiamo a Peppe Barra. Un autentico gigante: la tradizione lo attraversa e lui, come prisma, ne restituisce i colori, le rifrazioni in una voce, la sua, che è orchestra, gli spigoli di cento maschere nelle smorfie della sua arte. Se il Natale non è solo un miracolo da centro commerciale, da filmetto americano per famigliole distratte, lo si deve anche a lui.