Fino a pochi giorni fa la patente più nota – a parte quella automobilistica – era quella di iettatore richiesta da Rosario Chiarchiaro nell’omonima novella che Pirandello compose giusto un secolo fa. Oggi invece a Firenze la patente di cui si discute di più è quella antifascista, che il Consiglio municipale del capoluogo toscano, con una deliberazione inserita nello Statuto di Palazzo Vecchio, esigerà per la concessione degli spazi comunali a qualsiasi organizzazione politica, ricreativa, persino sportiva. In sostanza, per ottenere la concessione di una sala comunale, ma anche di un campo di calcio e persino del suolo pubblico necessario a montare un banchetto per la raccolta di firme, gli organizzatori dovranno autocertificare la loro provata fede antifascista, così come un tempo essere di “provata fede fascista” era necessario per ottenere un pubblico impiego (ma non sempre: il podestà della Gherardesca nominò Montale direttore del prestigioso Gabinetto Vieusseux anche se non era iscritto al Pnf, o forse proprio per quello).
Sulla conciliabilità col dettato costituzionale della delibera anche insigni giuristi come Ugo De Siervo, presidente emerito della Corte Costituzionale, hanno espresso riserve. Oltre tutto i richiedenti dovranno dichiarare che la loro manifestazione non sarà ispirata a ideologie che si richiamino non solo al fascismo, al nazionalsocialismo e al razzismo, ma anche all’omofobia e alla transfobia. Più che un’adesione ai principi costituzionali, pare si richieda da parte degli interessati una genuflessione alle massime della correttezza politica. È infatti tutto da dimostrare che i padri della suprema carta – fra cui c’erano molti cattolici fedeli all’insegnamento tradizionale della Chiesa – conoscessero l’ideologia del gender.
Il provvedimento può essere interpretato come espressione della tendenza delle amministrazioni locali a sovrapporsi all’ordinamento giuridico nazionale, a dispetto dell’antica massima secondo cui lex superior derogat inferiori (e in effetti negare il suolo pubblico in campagna elettorale presenta implicazioni costituzionalmente rilevanti). Ma può essere letto anche come una reazione scomposta tanto ai successi di Casapound alle elezioni locali in varie località toscane quanto alla clamorosa affermazione della destra giovanile alle elezioni studentesche della “rossa” Firenze. E questo rientra nella classica reazione da bambino viziato che si porta via il pallone se gli amici lo fanno giocare in porta, tipica di una sinistra per cui la democrazia è un bel gioco solo quando le consente di andare al governo.
Al di là di queste considerazioni giuridiche o psicologiche, c’è da chiedersi se la delibera del Consiglio comunale fiorentino non rischierà di tradursi in un boomerang per chi l’ha voluta, come un po’ tutti i giuramenti e gli atti di sottomissione estorti da regimi che almeno avevano il buon gusto di non dichiararsi democratici.
Il fascismo, nel 1931, impose ai professori universitari il giuramento di fedeltà non solo “alla Patria”, ma anche al regime fascista. A volerlo non fu Giovanni Gentile, ma l’allora ministro dell’Educazione nazionale Balbino Giuliano. Su 1200 cattedratici in servizio a non giurare perdendo il posto furono appena in 18, anzi 17 e mezzo perché uno di loro, Giovanni Antonio Borgese, pur essendo ancora nei ruoli, aveva già lasciato l’Italia per insegnare negli Stati Uniti, dove avrebbe sposato la figlia di Thomas Mann. Borgese era espatriato perché nonostante gli interventi di Mussolini in suo favore le sue lezioni di estetica erano disturbate da un gruppo di studenti insufflati da un collega che non gli perdonava certi scritti sulla questione adriatica. Fino ad allora aveva mantenuto un atteggiamento di rispetto nei confronti del presidente del Consiglio: solo l’invidia di un fazioso e la maleducazione di qualche teppistello allontanarono dall’Italia uno dei suoi più brillanti letterati.
Chi giurò, poté avvalersi di due dispense: quella di Pio XI, che invitò i cattolici a giurare “con riserva” (avessero potuto farlo i martiri, i leoni del Colosseo sarebbero morti di fame!), e quella del papa laico Togliatti, che da Mosca invitò i professori comunisti a prestare giuramento per rimanere in servizio e non perdere il contatto con i giovani. Per la maggioranza contò lo stato di necessità, anche se occorre riconoscere che il regime accordò ai docenti epurati i contributi figurativi per poter ottenere comunque la pensione minima.
Il risultato fu che l’università italiana postbellica fu un’università antifascista e che i più accaniti epuratori furono proprio i professori che avevano giurato fedeltà al fascismo senza convinzione. Il disprezzo di sé, per un’azione che ritenevano disdicevole, si tradusse in repulsione e spirito di rivalsa nei confronti di un regime che li aveva spinti a un’azione spregevole. Anzi, a più azioni spregevoli, visto che fra di loro non mancarono insigni filosofi del diritto firmatari di suppliche a Mussolini o grandi storici della filosofia umanistica passati dal gentilianesimo al gramscismo, che avevano cominciato a insegnare all’università prendendo il posto di un professore ebreo privato dalla cattedra con le leggi razziali.
La storia, del resto, è piena di giuramenti di fedeltà rivelatisi perfettamente inutili. Ci furono i marescialli di Napoleone, passati al servizio dei Borbone dopo Sant’Elena. L’imperatore detronizzato la prese con filosofia, commentando che erano gatti, fedeli alla casa, e non cani, fedeli al padrone. Gli “Immortali”, la guardia personale dello Scià, non combatterono a oltranza per impedire la rivoluzione di Khomeini, consegnando l’Iran a un prete cattivo. E per quanto riguarda ancora l’Italia, si sono visti i risultati del duplice giuramento, al re e a Mussolini, previsto per i membri della Milizia. Posto, dopo il 25 luglio a un bivio, ognuno andò dove lo portava il cuore, o lo stomaco.
Per questo, sia pure in un ambito molto più ristretto, tutto lascia prevedere che la patente antifascista richiesta per la concessione degli spazi pubblici nel Comune di Firenze si risolverà in un buco nell’acqua. Più che folgoranti conversioni al verbo democratico susciterà un desiderio di rivalsa in chi sarà costretto a passare sotto le forche caudine di un’autocertificazione di illibatezza costituzionale. La storia antica, e non solo quella, ce l’insegna: un nemico umiliato si vendica, come fecero i romani con i sanniti. Ma chi studia, oramai, la storia antica? Troppi politici sembrano convinti che la storia d’Italia sia cominciata solo con l’8 settembre.