Quel maestro di paradossi che fu Umberto Eco pensò che le sorti del giornalismo fossero una serie di numeri zero e inventò un romanzo geniale – “Numero Zero” appunto- il cui protagonista è un giornalismo costruttore di post verità che della verità paradossalmente sembrano il luogo unico. Simei, lo spregiudicato caporedattore di Eco è all’opposto dalla professionalità severa e dal garbo di penna di Ferruccio De Bortoli, ma proprio per questo il personaggio di Simei e quella pantomima in forma di romanzo fanno emergere la verità. Che per fare giornalismo occorrono gli ingredienti debortoliani: onestà intellettuale, coraggio delle idee e delle scelte, indipendenza dagli editori e fare sempre le domande, tutte. Soprattutto quelle scomode, quelle che fanno percepire il mestiere del giornalista come un’avventura romantica e seduttiva. Alla Bel Ami, nel cui tranello De Bortoli sta ben attento a non cadere nel suo esplosivo “Poteri forti” ( o quasi). Memorie di oltre quarant’anni di giornalismo” (La Nave di Teseo, 2017).
Quanto sia dirompente “Poteri forti” è stato chiaro il 20 dicembre in Commissione parlamentare con Federico Ghizzoni che ripeteva le parole dette a De Bortoli e metteva all’angolo la goffa difesa del sottosegretario Maria Elena Boschi, il pistillo del giglio magico. A mettere fine alla querelle politico-lessicale tra “fare pressioni” e “mi chiese” è l’aggettivo inusuale, attribuito nella ormai famosa pagina 209 alla domanda dell’allora ministro Boschi. Inusuale ossia, dizionario alla mano, insolito o fuori dal normale. Non si trova tra i sinonimi di inusuale l’aggettivo pressante. Tutt’al più insolito ossia straordinario, anomalo, curioso. Quale fosse la straordinarietà qualcuno fa finta di non capire, tant’è. Non un reato ma solo uno sgarbo al bon ton istituzionale, a quel “rispetto dei ruoli” che masochisticamente Marco Carrai invoca per spiegare la mail a Ghizzoni. Ma questa è un’altra storia. Forse. L’unica cosa certa è la perplessità di De Bortoli, che è di tutti noi. Anche di chi, per esempio chi scrive, leggendo il libro si chiedeva come mai proprio le parole di Ghizzoni non fossero virgolettate. La domanda si annulla dopo l’audizione dell’ex AD di Unicredit. Contro De Bortoli è stato mosso senza alcun dubbio un attacco del tutto strumentale a fugare ben altri e doverosi chiarimenti. Attacco, peraltro, a intermittenza lenta. Il guaio è che quelle poche righe di “Poteri forti (o quasi)” sembrano esaurire il merito di tutto il libro che sta in riflessioni ben più potenti e nell’approccio nostalgico verso un’Italia che ha fallito le scelte forndamentali per l’assenza di una nuova classe dirigente all’altezza dei vecchi rappresentanti. Dei vari Enrico Cuccia, Giovanni Agnelli, Beniamino Andreatta, Giorgio Ambrosoli, Cesare Romiti, Indro Montanelli, Enzo Biagi, Dino Buzzati, Raffaele Mattioli, Giovanni Spadolini, Ugo Stille, Leo Valiani (solo per citare alcuni dei numerosi personaggi che De Bortoli rievoca). Pochi uomini che hanno intuito e alcuni anche incarnato l’idea di un potere la cui forza consistesse nel bilanciamento tra certezza delle regole, trasparenza e libertà di informazione. Invece, constata De Bortoli, “Il paese ha avuto solo raramente poteri forti. Ha certamente avuto, e continua ad avere, sempre poteri opachi, non raramente forieri di corruzione, quando non confinanti con la criminalità. Cordate personali, piccole consorterie, corporazioni ottuse, egoismi locali e miopie collettive” e allargando l’orizzonte critico “ Un paese con poteri forti e responsabili non si assoggetta facilmente alla discrezionalità delle burocrazie europee”. Vecchio e nuovo si contendono il senso di un Paese, il nostro, e De Bortoli mostra il piglio pariniano di chi pensa che la nuova classe dirigente sia di gran lunga inferiore ai suoi predecessori, che questa sia “la stagione dei cosiddetti furbetti del quartierino”. Risonanze dell’opposizione bucolica campagna- città sono anche nella visione del giornalismo, “l’architrave della democrazia” di Giovanni Sartori. Quando afferma che non è la tecnologia a indebolire il giornalismo ma la classe dirigente che non affronta i problemi generati da un’informazione di qualità, De Bortoli non solo lascia trasparire il fantasma del numero zero di Eco o “la lotta per essere percepiti” del filosofo Christoph Türcke ma denuncia altresì la perdita della memoria il cui “sano esercizio aiuterebbe a rafforzare una slabbrata identità nazionale”.
Memoria è la parola cui De Bortoli ha dato il compito di raccontare quarant’anni di mestiere (soprattutto alla direzione di grandi testate come “Corriere della Sera e “Sole 24ore”) costellato di incontri eccezionali, di interviste epocali, di editoriali forti, di competizioni fervide -il duello con “Repubblica” è celato dall’allusività cavalleresca della scrittura-, di responsabilità pesanti, di dubbi ed errori. E’ un’autobiografia letteraria quella di De Bortoli, che traccia il ritratto di sé vero e ideale insieme, dove nell’ammettere le debolezze fa, e a ragione, esaltare la fierezza di un mestiere condotto con passione, accuratezza e serietà: accuracy e fairness– sottolinea De Bortoli- sono regole immortali del giornalismo. Nell’incipit quasi idillico, che pare rinnegare l’asciutta scrittura di questo libro, De Bortoli scrive “La memoria è una nebbiolina invisibile che toglie nitore ai contorni e deforma vigliaccamente il tempo”. Qualche contorno però rimane nitido. E’ il ricordo di Oriana Fallaci e di quel pamphlet “La rabbia e l’orgoglio” cui De Bortoli non riuscì a strappare nemmeno l’attacco. Ancora, il ricordo del cardinal Martini, il pastore che impedisce di sottrarsi all’esame di coscienza. E’ l’omaggio a Dino Buzzati cronista, una bella pagina di letteratura. La dedica a Walter Tobagi e Maria Grazia Cutuli si incastra con questa riflessione “…un giornale ha il dovere di cercare un senso, una spiegazione profonda, di incrociare competenze, di offrire un quadro ordinato dell’importanza e della concatenazione dei fatti. Di essere per il proprio lettore non solo una bussola affidabile ma un porto sicuro per identità scosse, solitudini inattese”