L’Eni è un attore geopolitico per eccellenza, l’unico che abbiamo di questa portata. E’ appena entrato in produzione ieri il mega-giacimento di gas offshore di Zohr che a regime può rendere autosufficiente l’Egitto e proiettarlo tra i Paesi esportatori. Ma è anche fondamentale per l’Italia, che importa gas principalmente da Russia, Algeria e Libia, per avere fonti alternative di approvvigionamento: gas e petrolio coprono attualmente il 70% dei nostri consumi di energia, in attesa di una rivoluzione “verde” dai contorni ancora assai incerti.
L’Italia, che spesso si ammanta nei discorsi quotidiani di retorica mediterranea, sta subendo il suo mare ma non lo gestisce. L’Eni, con la diplomazia del gas, può essere uno strumento utile per uscire dall’impasse. L’ambizione è fare dell’Italia un hub meridionale del gas, obiettivo che non coincide del tutto con le mosse russe di raddoppiare il North Stream verso la Germania ma che potrebbe essere rilanciato dal percorso Sud del Turkish Stream (assai contestato in Puglia) e soprattutto dalle grandi scoperte del gas Eni in Egitto e dallo sfruttamento congiunto delle risorse offshore nel Mediterraneo orientale.
Questa è forse l’area più turbolenta e conflittuale del pianeta ma lo sviluppo del gas del Levante è possibile solo con una forte interdipendenza e collaborazione tra stati in conflitto: Cipro, Turchia, Libano, Siria, Israele. Il gas rappresenta una grande opportunità in termini economici ma anche di stabilità e sicurezza: occorrono intese, progetti comuni, regole, per arrivare a infrastrutture comuni e mercati integrati.
Questa è la vera sfida del gas del Levante per l’Eni e l’Italia: prima che le nuove risorse invece di rappresentare una chance per la pace e lo sviluppo diventino parte del problema invece della soluzione.
L’Eni è un protagonista per storia e vocazione del suo fondatore, il comandante partigiano Enrico Mattei: sua la battaglia nel primo dopoguerra per non liquidare l’Agip nelle mani degli americani, quella condotta contro le Sette Sorelle per entrare sul mercato iraniano sbarrato dalle multinazionali anglo-americane, sua l’avventura mediterranea, con la decisa apertura ai Paesi africani e del Medio Oriente con i quali solidarizzava per il passato coloniale, al punto di finanziare il Fronte di liberazione algerino anti-francese. Senza dimenticare i rapporti con Mosca, quando Mattei, in piena guerra fredda, importava il petrolio russo a prezzi da saldo.
Viene sempre più definendosi in quel periodo il disegno di Mattei per raggiungere l’indipendenza energetica che resta ancora oggi un obiettivo irrinunciabile, insieme a una sempre maggiore internazionalizzazione e diversificazione, dalle energie rinnovabili alla chimica, industria rinata e che produce utili.
I piani di Mattei si infrangono il 27 ottobre 1962, quando il suo bireattore precipita nei cieli di Bascapè. Quel mondo in bianco e nero – tra guerre ideologiche, decolonizzazione e inconfessabili complotti – lo leggevamo allora anche sulle colonne del “Giorno”, altra creatura di Mattei, con le firme di Italo Pietra, Del Boca, Pirani, Valli.
Un passato che è ben vivo in un presente costruito con manovre forse meno spregiudicate di quelle di Mattei ma ugualmente fondamentali per gli interessi nazionali.
La diplomazia del gas è una delle non tante armi concrete che ha in mano l’Italia per contare qualche cosa sullo scacchiere internazionale. Non è un caso che nel 2011, all’inizio delle guerra contro Gheddafi, i terminali dell’Eni in Libia fossero inseriti dai nostri alleati tra gli obiettivi da bombardare (come testimoniano l’ex ministro degli Esteri Frattini e l’allora capo di Stato maggiore Camporini). Pensare male è peccato ma spesso ci si azzecca, diceva Andreotti.
Ma a sei anni e oltre dalla fine del dittatore libico, il maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo, la cui sconfitta con le sue conseguenze è stata la più devastante débâcle italiana dal dopoguerra, l’Eni rimane l’unica multinazionale attiva sia a Ovest che a Est di una Libia spaccata tra Tripolitania e Cirenaica.
È anche la maggiore impresa “legale” del Paese: ha 7mila dipendenti, tutti libici, produce da un minimo di 100mila barili di petrolio al giorno a 250mila ed estrae circa 8 miliardi di metri cubi gas l’anno. Meno della metà arriva in Italia con il gasdotto Green Stream mentre il resto è destinato al mercato locale.
Oggi Eni gestisce circa un terzo di tutta la produzione di gas e petrolio della Libia mentre prima della guerra del 2011 si parlava di meno di un quinto del totale. Quasi un paradosso per i concorrenti della multinazionale italiana.
L’Eni ha una proiezione globale che diventa, in parte, anche quella nazionale. È il primo fornitore di luce in tutta la Libia, senza distinzioni tra Est e Ovest. È il maggiore cliente della russa Gazprom con 24 miliardi di metri cubi l’anno di gas. È il primo gruppo straniero a perforare l’Artico dall’inizio dell’era Trump. Grazie all’Eni che nel 2016 ha investito in Africa 8 miliardi di dollari, l’Italia è diventata il terzo investitore del continente dopo Cina ed Emirati.
Per questo Zohr ha un grande significato: per lo sviluppo economico dell’Egitto, un Paese che è nelle mani del generale Al Sisi ma deve ancora trovare stabilità, percorso dal terrorismo jihadista e stretto nella morsa della povertà. Ma è importante anche per l’Italia, che dopo le vicende libiche e il caso Regeni, è rimasta intrappolata dalle strategie delle potenze concorrenti, dentro e fuori dall’Europa.