Secondo Alain de Benoist il concetto di sovranità, probabilmente uno dei più complessi in scienza politica, può essere rinviato a due accezioni principali: una definisce la sovranità come il potere pubblico supremo, quello che ha il diritto – e, teoricamente, la capacità – di far prevalere in ultima istanza la sua autorità. L’altra designa il detentore ultimo della legittimità del potere, rinviando allora al fondamento di quella autorità. “Quando si parla di sovranità nazionale, definendola in particolar modo come il mezzo dell’indipendenza, cioè della libertà di azione di una data collettività – ha scritto de Benoist – ci si situa nella prima accezione; quando si parla di sovranità popolare, ci si situa nella seconda”.
Quanto sia complesso connettere i due livelli, quello della libertà di azione di una data collettività e quello relativo alla sovranità popolare, è oggi la questione principale all’ordine del giorno dell’Italia e, più in generale, dell’intera Europa. E tanto più lo sarà, per il nostro Paese, nelle prossime settimane, allorquando la campagna elettorale delineerà gli interessi in gioco, le opzioni sul tappeto, le reali differenze tra gli schieramenti.
Più che un pericolo – come ha scritto recentemente Carlo Bastasin su “Il Sole 24 Ore” – il sovranismo può allora diventare una vera opportunità, a patto di declinarlo compiutamente, rendendolo – al di là degli slogan – percepibile e credibile alla vasta opinione pubblica. In questa prospettiva c’è bisogno di un salto di qualità insieme culturale e programmatico.
Al primo livello, quello culturale, c’è il nodo, tuttora non sciolto, del rapporto tra identità nazionale e sviluppo economico globalizzato, tra crescita socialmente compatibile e commercio globale.
Sul piano più concreto l’opzione sovranista deve articolare programmaticamente la difesa del “made in Italy”, ma anche la volontà di porre freni alle importazioni selvagge da quei Paesi dove a dominare è lo sfruttamento dei lavoratori, con forme di vero e proprio lavoro forzato (ventuno milioni secondo il rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro); deve mettere un freno allo strapotere delle finanza internazionale per “tornare al reale”, all’economia produttiva, ai territori; deve tutelare la Nazione, riperpetuandone la vita, attraverso adeguate politiche demografiche.
E qui il cerchio si chiude, nella misura in cui il tema della libertà di azione di una data collettività e quello relativo alla sovranità popolare si fondono, rendendo chiara la partita in gioco. Al centro la domanda di partecipazione alle decisioni politiche (la democrazia come partecipazione di un popolo al proprio destino …) e l’inversione di tendenza rispetto alle “logiche” tecnocratiche e ai processi di “disintermediazione”, che stanno svuotando il sistema della rappresentanza popolare e la nostra economia. Indipendenza (nelle scelte) e autentica volontà di rappresentare l’anima ( e la volontà) profonda di un popolo: qui – al di là di ogni formalismo – si gioca non solo un appuntamento elettorale, quanto soprattutto la capacità di trasformare un’aspettativa in forza di cambiamento.