E’ risaputo che tre indizi fanno una prova. In ordine cronologico, il primo indizio è stata l’amara sconfitta alle elezioni del comune di Roma. Il secondo indizio sono state le numerose e talvolta soprendenti vittorie alle elezioni amministrative. Il terzo indizio infine è stata l’elezione di Nello Musumeci a governatore della regione Sicilia. Tre indizi dunque che provano in maniera inequivocabile come l’unica possibilità per le forze politiche di cdx di vincere le prossime elezioni politiche sia coalizzarsi.
Eppure all’approssimarsi dell’appuntamento elettorale pare che la discussione politica si stia vieppiù affossando nella questione della leadership, ovverosia su chi dei tre leaders delle tre maggiori forze politiche di cdx debba essere il candidato dell’intera coalizione. Già qui sarebbe opportuno fugare un’ambiguità imbarazzante a proposito di come quei tre leaders interpretano il ruolo a cui ambiscono. Le possibilità possono essere fondamentalmente due: 1) essi interpretano la candidatura come mero espediente di contabilità elettorale, nel senso che ritengono il proprio nome più adeguato strategicamente a condurre la coalizione alla vittoria e per giustificare il proprio peso specifico all’interno della coalizione stessa 2) essi interpretano la candidatura in un’accezione ad un tempo più nobile e più gravosa, cioè proponendosi come “guida” della coalizione: in tale senso il candidato sarà anche colui che condurrà il popolo del cdx fuori dal deserto degli ultimi cinqu’anni, verso la terra promessa del governo d’Italia. Nei discorsi politici pubblici tale ambiguità non viene affatto risolta, ma anzi viene aggravata dalla malcelata faziosità con cui i capi stessi o i loro epigoni interpretano i dati delle vittorie e le ambizioni della coalizione. Si tratta di un atteggiamento che invece di rafforzare la coalizione la rende vulnerabile, e che soprattutto mortifica tutti quegli elettori, assicurati o putativi del cdx, che prima di tutto tengono alla sconfitta della sx e del M5S, anziché ai giochetti di gabinetto.
L’ambiguità che ho poc’anzi rilevata falsa a priori una possibile soluzione alla questione della leadership. Ma volendo indagarla più a fondo, è possibile scoprire ulteriori difficoltà. Anzitutto, i possibili candidati non sono adeguati ad assumere la leadership, e pertanto, qualunque sistema possano escogitare per stabilirla, sarà destinato a fallire. Silvio Berlusconi si è compromesso in maniera imbarazzante all’epoca del “patto del Nazareno”; Matteo Salvini è persona troppo intemperante e pressapochista; Giorgia Meloni, infine, è immacolata ma decisamente troppo debole e troppo poco carismatica. A tale problema di merito, si aggiunge un problema di metodo: è da mesi che si sente insistere sul “problema della leadership” come in ambito calcistico si potrebbe discutere del “problema del top-player”. L’attenzione viene fossilizzata sul singolo talento, distraendo dall’evidenza che è il gioco di squadra ad assicurare la vittoria; che le giocate del talento possono sì risultare incisive, ma la gestione della partita è affidata fondamentalmente a tutta la squadra, panchinari e società compresa, che devono credere nel progetto.
Quest’ultima constatazione ci conduce a rilevare qual’è il vero problema della leadership in Italia. Negli ultimi venticinque anni di storia politica del nostro paese ci siamo assuefatti all’idea che una forza politica possa vincere solo se condotta da un leader carismatico, ma contemporaneamente abbiamo smarrito il senso autentico del “carisma”. In altri tempi il potere politico non avrebbe potuto sussistere senza la legittimazione carismatica. Ma in una democrazia liberale sarebbe opportuno diffidare del “leader carismatico”, perché una tale figura tende a dirigere la società verso lo scivoloso crinale di quella che uomini più saggi di noi avrebbero stigmatizzato come oclocrazia – governo delle masse dirette da un demagogo.
L’idea della necessità di un leader carismatico anche in una democrazia liberale fu introdotta e sviluppata in Italia da Silvio Berlusconi, e poi adottata da pressoché chiunque, Matteo Renzi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni [sic!], Giuliano Pisapia (Pisapia!), etc. Oltre al problema inerente al concetto di “carisma”, quell’idea ne pone immediatamente un altro, a mo’ di corollario: alla crescente importanza del leader corrisponde l’indebolimento e la rarefazione della forza politica, incarnata nella forma del partito. Il partito smette progressivamente d’essere luogo di elaborazione e diffusione di idee e di proposte, smarrisce il suo ruolo di trade d’union coi cittadini, per diventare una mèra cassa di risonanza per la volubilità del leader. E mentre al leader vengono attribuiti troppi poteri e conseguentemente troppi oneri, i militanti del partito vengono corrispettivamente deresponsabilizzati, quando invece dovrebbero esser loro i primi responsabili di un’attività politica sana ed onesta.
Da tutte queste considerazioni, non posso che trarre una conclusione: nell’attuale circostanza storica, in cui il supremo obiettivo è coalizzarsi per vincere, le forze politiche del cdx devono comprendere come il “problema della leadership” sia in verità un falso problema, su cui è sterile, per non dire dannoso, indugiare. Che le forze politiche del cdx, e dunque i loro leaders, si comportino alle prossime elezioni politiche come si sono comportate alle scorse elezioni amministrative e regionali: cioè investendo del loro potere un candidato alternativo che sia essenzialmente una figura politicamente credibile ed onesta umanamente. A conferirgli il mandato di governo sarà infine l’elettorato italiano.