Il suo primo libro, Veronica dal vivo, uscì oramai due decadi orsono, per la stessa Transeuropa che pochi anni prima aveva lanciato Enrico Brizzi con Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Coevo al fenomeno cannibale, lui comunque respinge qualunque tipo di affinità, filiazione, o tentativo di accostamento. Piuttosto, guarda con nostalgia alle antologie di scrittori under 25 promosse a suo tempo dal compianto Pier Vittorio Tondelli. Siamo andati a intervistarlo per scoprire come abbia avuto inizio la sua carriera e conoscere i successivi sviluppi. Incontriamo Giuseppe Casa autore per Transeuropa, Baldini&Castoldi, StampaAlternativa, Il Clown Bianco, e Rizzoli.
È con estrema indiscrezione che ti domando dei tuoi inizi. Estrema indiscrezione perché vorrei sapere tutto, ma proprio tutto – senza reticenze – in merito a come tu sia diventato uno scrittore. In qualche precedente intervista ho letto che iniziasti con la poesia. Come arrivasti alla prosa?
“Non so se sia diventato uno scrittore, i dubbi rimangono, perché non basta pubblicare per potersi dire scrittori. Anche Patty Pravo ha pubblicato un libro di recente. Per me, in principio c’erano i fumetti: Topolino, I fantastici Quattro. Presto passai a quelli destinati agli adulti: Zora la Vampira, il Marchese De Sade, Oltretomba, giusto per capirci. C’era molto sesso e orrore estremo. Poi lessi Emily Brontë, Cime tempestose, che mia sorella aveva fatto rilegare, dopo averlo raccolto da una pubblicazione a puntate di una vecchia rivista femminile chiamata Confidenze. Il romanzo mi colpì per le sue atmosfere gotiche. Ho un gusto particolare per il gotico e, soprattutto, per il tema del male e del mistero. Poi, negli anni, ho continuato con la lettura.
Ma è vero, iniziai con la poesia. Le prime trovarono spazio su Poesia, la famosa rivista della Crocetti Edizioni. Speravo di pubblicare, fin da allora. Però mi resi conto abbastanza presto, tra la fine degli ottanta e l’inizio dei novanta, che la situazione si stava facendo ridicola. Si cercava di mettere insieme queste raccolte con due poesie per ogni autore, chiedendo poi a ciascuno di acquistare una o più copie dell’antologia. Era l’inizio degli autori a pagamento. Capii che il mio mezzo era la prosa, che c’era una verità poetica anche nella prosa. Avevo intrapreso nuove letture, come Bukowski – che mi aveva folgorato – e fu così che iniziai a scrivere dei racconti.
In quel periodo incontrai il celebre poeta Dario Bellezza. Stavo in Sicilia, posto che per lui era un luogo di caccia. Lo conobbi in discoteca. Fu una guida per me. Andavamo anche al mare insieme. Non so se fosse attratto, o se mi trovasse semplicemente interessante. Certo gli piaceva parlare con me e con i ragazzini. In questo senso era simile a Pasolini, di cui peraltro era stato segretario per alcuni anni. Sta di fatto che mi invitò a casa sua, a Roma, in via dei Pettinari. Lì girava una varia umanità, specie attori e registi di quei film di serie B allora tanto in voga. Questi personaggi e tutte le altre storie che ho vissuto a casa di Bellezza sono confluite, seppur in forma romanzata, nel testo pubblicato da Rizzoli, La notte è cambiata. Potrai immaginare comunque l’emozione, per me, ragazzo di Sicilia trapiantato improvvisamente a Roma”.
Ma, quindi, tu andasti a Roma al seguito di Dario Bellezza?
“No, io andai a Roma per fare il militare e vi tornai da studente. Così rincontrai Dario Bellezza e gli confidai di aver iniziato a scrivere. All’inizio, non gli feci leggere niente. Dopo qualche anno, presi coraggio e gli inviai quello che era il romanzo che poi avrei pubblicato con Rizzoli. Fu lui a dirmi che il materiale era buono e, a quel punto, mi indirizzò personalmente verso l’editore Transeuropa”.
Quindi tu in principio desideravi dare alle stampe un romanzo, quando approdasti a Transeuropa? Com’è che invece pubblicasti Veronica dal vivo?
“A quei tempi, alla casa editrice in questione, c’era Massimo Canalini, grande talent scout, diciamo pure il talent scout della letteratura italiana. Dopo una settimana dall’invio del romanzo, ricevetti una chiamata. Ovviamente, saltavo dalla gioia. Considera che Canalini aveva già pubblicato Enrico Brizzi, nel ’94, con Jack Frusciante è uscito dal gruppo e Silvia Ballestra, in una delle famose antologie promosse da Pier Vittorio Tondelli e dedicate agli autori under 25. E, permettimi una digressione, quelle sì erano innovative, molto più dell’antologia che lanciò i cannibali. Per chi era troppo giovane allora, ricordo che Tondelli aveva lanciato un messaggio, su Linus, in cui richiedeva racconti da parte di giovani autori. E ribadisco, quella era davvero un’idea sensata, altro che l’antologia dei cannibali in cui, al di là di Ammaniti e Aldo Nove, vi era il nulla assoluto, secondo me.
Tornando alla mia storia, Canalini aprì questa finestra e mi invitò ad andare a trovarlo ad Ancona. Io gli avevo mandato il romanzo, come ti ho detto, ma lui mi chiese se avessi anche altro. A quel punto, tirai fuori una trentina di racconti che tenevo nel cassetto. Fu così che mi propose di pubblicare, piuttosto del romanzo che decise di riservare per un momento successivo, quelli che a suo avviso erano più immediati, veloci e interessanti”.
E così nacque Veronica dal vivo?
“Esatto. Il libro venne fuori così. Lo costruii sul modello di Cronaca Vera che era strutturato per rubriche, ognuna inerente un tema specifico: dall’amore ai segni zodiacali, alla guerra in Somalia, agli omicidi degli omosessuali, o vari altri problemi degli anni novanta. Il punto di vista era endogeno, ovvero interno, quello dello stesso protagonista della storia narrata con il quale di volta in volta cercavo di identificarmi. Per questo i miei racconti sono sempre stati scorretti, perché raccontavo da un punto di vista scorretto. Un pedofilo, se ci pensi, ha un suo punto di vista, che nella sua ottica è corretto, mentre è scorretto in quella altrui. Perciò i miei racconti non sono morali, nel senso di meramente edificanti, perché raccontano un punto di vista diverso e irriducibile alla visione comune”.
Insomma, tu non ti eri reso conto di avere un vero e proprio lavoro organico tra le mani, prima dell’intervento di Canalini?
“No, assolutamente. E, peraltro, il lavoro resta a oggi tutt’altro che organico. I racconti non hanno la stessa voce e nemmeno uno stile comune. Qualcuno, non per niente, li ha definiti un abbecedario stilistico degli anni ’90. Si va infatti dalla fantascienza all’horror e oltre. C’è in essi, insomma, un po’ di tutto. L’organicità, se di organicità si può parlare, sta nell’ordine che riproduce quello della rubrica, cioè nell’accostamento di racconti dalle tematiche comuni, all’interno di quel contenitore. Per questo alcune porzioni contengono per esempio quattro racconti, mentre un’altra ne contiene due. Un editore mi ha proposto una ristampa per i vent’anni. È una cosa che va di moda, le ristampe per i vent’anni. Non so… ci devo pensare”.
In sostanza, tu sei uno dei pochi scrittori che in principio non ricevettero rifiuti?
“No, non ne ricevetti, almeno in principio. Considera d’altra parte che io avevo già pubblicato molti racconti, in quelle che allora erano definite Fanzine e che venivano regolarmente vendute in libreria. Tanto per fare dei nomi: Il paradiso degli orchi, Maltese Narrazioni, Addiction. Io stesso ne avevo creata una con un amico e la vendevamo nei centri sociali. Ero in un certo senso già noto. Allora si teneva un importante convegno letterario organizzato dagli editori e intitolato Ricercare. Lì, il mio nome era venuto fuori. Infatti Massimo Canalini di Transeuropa, prima ancora di leggermi su invito di Dario Bellezza, aveva avuto modo di visionare alcuni miei racconti pubblicati su queste riviste. Uno di questi racconti, tanto per dirne un’altra, uscì anche su Musica!, allora inserto di La Repubblica, prima di confluire in Veronica dal vivo.
Per tornare alla tua domanda, comunque, i rifiuti, debbo essere onesto, arrivarono dopo. Sai, il mondo dell’editoria stava già cambiando. Fino agli anni novanta, c’era grande fermento. Ti ho detto del festival Ricercare, dove si portavano giovani autori prossimi alla pubblicazione, o che comunque si erano fatti notare. Io, per esempio, fui invitato da Canalini e lì conobbi molti nomi del calibro di Barilli, Leonetti, Sanguineti, e Nanni Balestrini. Nel frattempo, vennero da me anche Paolo Repetti e Severino Cesari, quelli di Stile Libero Einaudi, chiedendomi se avessi qualcosa da potergli mostrare. Io, ingenuamente, non sapendo neanche chi fossero, declinai il loro invito adducendo il mio legame con Massimo Canalini. Considera che lui allora aveva potere e poteva portarmi dai grossi nomi. E così dissi di no a Einaudi che, in seguito, mi avrebbe respinto”.
Hai pubblicato anche con importantissime case editrici come Rizzoli e Mondadori (almeno in un’antologia). Com’è avere a che fare con un colosso dell’editoria? Il lavoro si complica? L’editing diventa più attento e raffinato? Ti sei sentito maggiormente a tuo agio tra i grandi professionisti, o preferisci le piccole realtà? Se, come suppongo, prediligi queste ultime, perché?
“Da Rizzoli mi portò Canalini. Lì c’era Benedetta Centovalli che gestiva una collana, Sintonie. Era molto interessata al mio modo di scrivere. Lei pubblicava prevalentemente autori provenienti dalla Scuola Holden e qualche personaggio televisivo.
Certo, la cosa bella di una grande casa editrice è che di solito ha un buon ufficio stampa e ti fa conoscere come non potrebbe mai fare un piccolo editore. Creano il fenomeno. Infatti cominciarono a chiamarmi dai giornali, chiedendo la mia opinione più o meno su qualsiasi tematica scottante. In generale, però, il mio approccio con la grande realtà editoriale risultò traumatico. Al momento della pubblicazione, mi affibbiarono una serie di editor (suppongo gente che lavorava a contratto), a cui presumibilmente avevano fornito certe indicazioni piuttosto restrittive. Così passavo interi pomeriggi al telefono a discutere e contrattare. La bozza che mi mandarono conteneva diversi, troppi tagli. Mi fecero presente che alcune cose non si potevano dire. Capirai certamente quanto mi avessero rotto il cazzo. Per me era uno snaturare il romanzo che, in effetti, se fosse uscito senza quei tagli, avrebbe avuto tutto un altro sapore. Questo approccio fu terribile, tant’è che non ero più sicuro di voler pubblicare con Rizzoli. Successivamente e direi molto provocatoriamente, portai loro un romanzo molto più eversivo. Quello che mi dissero, senza precisare il nome di chi me lo disse, fu che bisognava lavorare a un qualcosa di più edificante, che lanciasse un messaggio positivo. Da lì in poi, ci volle poco perché mi allontanassi.
Comunque, per venire all’ultima parte della tua domanda, non è che i piccoli editori siano migliori, anzi fanno molte volte altrettanto schifo. Adottano gli stessi criteri di selezione e vendibilità, vogliono mettere becco su tutto, ma poi non hanno i mezzi per darti altrettanta visibilità. Per dirtene due, Fernandel e Gaffi. Il primo mi aveva rotto i coglioni per telefono, pretendendo che gli portassi delle motivazioni morali per la mia storia, come se non si motivasse da sola. Il secondo voleva cambiare il titolo, oltre che il sesso del personaggio principale. Scrivere qualcosa in salsa gay. Naturalmente, poi, non tutti sono così. Per esempio, il mio ultimo editore, Il Clown Bianco, è strepitoso. Esistono ancora alcuni abbastanza pazzi da credere nella fortuna di un progetto difficile, di una storia che va in senso antitetico a come dovrebbe andare una storia di successo. Ne approfitto per invitare a leggere il mio Io Non Sono Mai Stato Qui. Un vero capolavoro, a detta di alcuni.
Il problema però è che i critici che stanno sulle grosse testate non vogliono prendere in considerazione, se non le pubblicazioni delle grandi case editrici. Ai piccoli non resta che affidarsi ai blog, che a mio avviso sono la vera alternativa ai giornali, oramai per niente liberi da condizionamenti anche nella scelta di chi recensire. Debbo però ammettere che, nel mio caso, fa eccezione Il Giornale che, malgrado tutto, ha voluto elogiare il mio lavoro”.
Lo scrittore, o scrittrice, che ha cambiato la tua vita?
“Sono in debito con molti scrittori e scrittrici, ma non ve n’è uno/a in particolare. Di solito, sai com’è, un autore mi piace per un periodo, diciamo per un certo numero di romanzi, poi mi rompo il cazzo, perché alla lunga tendono tutti a ripetersi. In generale, comunque, amo molto la letteratura americana e il romanzo francese”.
Ti piace la narrativa italiana? Se sì, quale pensi sia il miglior scrittore degli ultimi decenni? Ci sono dei giovani su cui punteresti?
“No, a essere sincero, per i motivi di cui sopra. Non c’è nemmeno alcun autore di quelli che ho letto che spicchi sugli altri. Proprio a voler tirare fuori un nome, ti citerei Daniele del Giudice. Però anche lui, dopo il terzo libro… Diciamo che oggi non lo leggerei più. Per quel che riguarda i giovani, non so, non li conosco, non li leggo, perché per la maggior parte quelli che emergono sono frutto di operazioni commerciali. L’unica giovane che mi sentirei di segnalare non è italiana, ma americana, Emma Cline con il suo Le ragazze”.
Esiste secondo te una scrittura femminile, nel senso di un modo di scrivere che derivi da una visione del mondo specifica e che risulta pertanto preclusa agli scrittori?
“Se esistesse, bisognerebbe ucciderla. Purtroppo esiste in Italia, vedi Loredana Lipperini. Si tratta di donne che scrivono di problemi femminili, del problema di essere mamma, figlia, moglie, nipote, nonna, libri di auto-aiuto per donne in difficoltà, libri dove il passato viene riscritto in salsa sentimentale.
Probabilmente hanno dei problemi di natura sessuale. Ma la scrittura di per sé non ha sesso, questo è sicuro”.
La più grande scrittrice di tutti i tempi?
“Non ne ho idea e peccherei di presunzione rispondendoti in modo deciso. Sembrerebbe che avessi letto tutto. Certo, posso dirti che al momento vedo positivamente la già citata Emma Cline, la quale trovo abbia una forza eccezionale. Ma ti potrei citare anche Jandy Nelson, con Ti darò il sole, decisamente una scrittura non conformistica…mica parliamo di Silvia Avallone! Ma ti rendi conto che pubblicano una simile?! E non parliamo di Teresa Ciabatti o di Melissa P. Dio mio, come si fa a pubblicare una che si chiama P.? Ecco, loro sono scrittura femminile. Roba da matti! Meglio se si occupassero di questioni femminili o volontariato e non della scrittura, che è ben altra cosa”.
La più grande scrittrice italiana?
“Sibilla Aleramo, fuor di dubbio. Ben altra pasta rispetto a quelle attuali. Ce n’è una, di cui tacciamo il nome, non voglio passare per un misogino, ma è stata molto famosa fin dai primi novanta e ha sempre pubblicato per grandi case editrici. Io la considero una specie di fashion blogger della scrittura, di quelle che si curano più del loro modo di vestire che di quello che scrivono. Per dirla tutta, ha avuto più culo che anima. Ma, attenzione: anche alcuni scrittori di successo usano una scrittura di tipo femminile, smielata, consolatoria e mercificata”.
Hai di recente dato alle stampe un romanzo. Stai già lavorando a qualcosa di nuovo?
“Sì, avrei una storia a cui sto lavorando da diversi anni. Il punto è che ogni volta io cerco di cambiare. Non mi va di ripetermi e non mi piace chi lo fa, come ti ho già detto. Sarà un romanzo di fantascienza di stampo distopico che, adesso, è diventato un genere di moda, ma quando cominciai a scriverne io non era ancora tale. Il punto per me resta l’indagine del male nella società tardo capitalistica. Però ci sto ancora riflettendo… ma vorrei dirti ancora una cosa…”.
Ti ascolto…
“I lettori, finché ce ne saranno, avranno sete di narrativa, qualsiasi narrativa, e sceglieranno sempre quella più avvincente, se gli si dà la possibilità di scegliere”.