«Nel rumore irreparabile che fa la gente mentre esiste, noi avremmo accordato un flauto». Lidia – conduttrice radiofonica – progetta la sua storia con Lorenzo – scrittore –, incontrato in un Luna Park il 29 febbraio. Sono i protagonisti de “La zona cieca” (Feltrinelli), di Chiara Gamberale. Che più o meno involontariamente ha rinnovato il realismo patinato: un incrocio fra il vecchio fotoromanzo e la classica telenovela. Una sorta di “Monopoli” sentimentale con carte e lanci di dadi. Storie al limite della credibilità condite da quasi tragedie e un mucchio di problemi, ma tutte risolvibili con l’amore. Piovono i «ti amo» e le frasi ad effetto: micce erotiche disinnescate e improbabilità, «Lorenzo dormiva su un vecchio divano con i cuscini sporchi di mestruazioni». Così tra telefonate in radio, depressioni, droga, anoressie, scopate, incontri e scontri con dibattito e riflessioni a margine, mozzarelline speciali, monasteri tibetani, maestri di respiro, telefonini che squillano a vuoto, sms che sembrano biscotti della fortuna e un improbabile Rob Brezsny epistolare, uno si chiede da dove esca tutta questa gente e a un certo punto anche Lidia – saltando da un ricovero in clinica a una visita alla biografa apocrifa di Marilyn Monroe – si pone la questione, ma solo per rilanciare: «E nessuno, alla lunga, può vivere in un fumetto. A parte me». A leggere la postfazione di Walter Siti: la Gamberale sembra la nuova Simone de Beauvoir. Il problema, oltre la lingua e i temi, è la diversità autobiografica e la sua restituzione.
(pubblicato su Il Messaggero)