Un secolo fa l’offensiva austro-ungarica e germanica si scatenava nell’alto Isonzo
In memoria di
Luigi Ferraris
(1887-1915)
medaglia d’argento al v.m.
Con nuovi gas asfissianti, contro i quali sono vane le maschere in uso, la battaglia di Caporetto comincia nel buio, letale e silenziosa. Sono le 2h del 24 ottobre 1917. Nell’alta valle dell’Isonzo (oggi Slovenia, dove Caporetto si chiama Kobarid) i soldati italiani di prima linea muoiono sul posto: visti dalle retrovie, però, paiono ancora vivi e vigili. Oltre alle truppe austro-ungariche, irrompono quelle germaniche e non sono reclute. Sono veterani o del fronte orientale (i russi sono sulla difensiva) o delle Fiandre (anche i francesi, con Philippe Pétain al comando, si sono messi sulla difensiva).
Sul fronte italiano si è previsto che la guerra di movimento (Blitzkrieg) sostituisca la guerra di trincea, ma non si è previsto che ciò avvenga con tanta rapidità, agilità e intensità. In tre settimane cadono Friuli e parte del Veneto. La ritirata italiana spera di fermarsi sul Tagliamento, ma prosegue fino al Piave, portando la guerra nella pianura e rendendola ormai una minaccia per ogni suddito italiano, mentre le linee di comunicazione nemiche si allungano oltre misura, indebolendone le potenzialità. Inoltre, se per l’Impero Germanico il fronte che conta non è più a est, non diventa nemmeno quello a sud. Resta quello a ovest, con obiettivo Parigi, ed è a ovest che le sue truppe tornano per l’offensiva decisiva, prima che l’arrivo in massa di truppe americani la renda inutile.
Sul Piave, avendo perduto varie province, il Regno d’Italia aspetta (proprio come fanno i francesi che hanno perso un sesto del territorio nazionale) che fame e conflitti etnici pieghino i popoli, prima che le truppe, dell’Impero Austro-Ungarico. Nell’ottobre 1918 i vincitori di Caporetto si ritirano. L’armistizio vede le truppe italiane a Innsbruck. Col trattato di pace si ritirano al Brennero, comunque oltre la linea di separazione linguistica italo-tedesca: Trento, Trieste e Istria diventano italiane, ma non Fiume e non la Dalmazia, salvo Zara. Pare poco per circa seicentomila morti, inclusi quelli in prigionia e le vittime della peste polmonare detta “spagnola”.
Pare poco, ma non lo è. Un Paese di recente unità, più retrivo che arretrato e povero, senza ferro né carbone, largamente contadino, retto da una dinastia impopolare come i Savoia (le cannonate sulla folla a Milano sono di vent’anni prima, l’assassinio del re Umberto è di diciotto anni prima), è rimasto unito, nonostante Caporetto, quando in quei giorni e nell’anno seguente tre imperi e tre dinastie – Asburgo, Hohenzollern, Romanov – escono di scena. Non solo. Sedersi al tavolo dei vincitori, tra una Francia e un Regno Unito indeboliti molto di più dell’Italia in proporzione al 1914, riequilibra in parte la bilancia geopolitica. Anche questo è quasi un miracolo, ma non viene colto dagli italiani come tale e si parla di “vittoria mutilata”. Ancor oggi Caporetto mette in ombra la vittoria finale nella Grande Guerra (4 novembre 1918) e la formidabile crescita economica dell’Italia, cominciata proprio allora.
Un esempio: come polo industriale, Porto Marghera nasce a opera di Giuseppe Volpi proprio nel 1917, con gli Austro-Ungarici a pochi chilometri di distanza: una scommessa vinta sul futuro. Ma che cos’è oggi per tanti italiani Porto Marghera? Una fabbrica del cancro… Mai qualcuno che ricordi come, senza militarizzazione industriale, l’Italia avrebbe subìto, dopo Caporetto, l’invasione della pianura padana da parte di più belligeranti (i francesi non avrebbero lasciato arrivare i tedeschi al Mincio stando a guardare). Di conseguenza, alla pace, l’Italia sarebbe stata frazionata secondo interessi dei Paesi confinanti, cancellando l’unità nazionale, il vero, tenace valore del Risorgimento. E se anche rivalità continentali avessero impedito il ritorno della penisola a semplice espressione geografica, oggi l’Italia sarebbe solo una grossa Albania sotto il Papa Re.
In un momento come l’attuale, di crisi economica sfociante non nella “ripresa”, ma nella miseria, di sovranità al lumicino, di governanti nominati dallo straniero, ciò va ricordato. Si paragoni l’idea di auto-disprezzo che, partendo dalla ritirata da Caporetto al Piave, nonostante Vittorio Veneto, ha preso piede in Italia fin dall’uscita di un film bello, ma disfattista come La Grande Guerra di Mario Monicelli (1958), a quella di orgoglio che, partendo dalla fuga da Dunkirk, ha invece preso piede in Gran Bretagna appena s’è profilata la Brexit, spacciando una disfatta politicamente ben più grave di Caporetto (a Dunkirk nel 1940 Francia, Belgio e Paesi Bassi sono stati debellati e la Gran Bretagna è rimasta sola) un’alba di vittoria nella seconda guerra mondiale (8 maggio 1945), sebbene sia stata l’inizio della fine per il loro Impero.
Perfino la definizione di Grande Guerra, che ancora il film di Monicelli accoglieva, è oggi osteggiata. Nel suo centenario si parla sempre di “guerra 1915-18”, come se l’Italia sola vi fosse coinvolta, come se, dall’estate 1914 alla primavera seguente, non ci fosse già stato un milione di morti sui vari fronti. Il Regno d’Italia intervenne entro la primavera 1915 soprattutto per evitare che i belligeranti, considerati ormai vicini all’esaurimento, si accordassero sulla pelle dei neutrali, come era l’Italia. Anche questo ragionamento, che – col senno di poi – si è rivelato prematuro aveva un fondamento, ma è sparito dai libri di storia per le scuole.
(Un frammento di “Don Camillo e l’onorevole Peppone” di Carmine Gallone (1955), che – nel clima della crisi di Trieste e della Dc ancora partito conservatore -, solo tre anni prima de “La Grande Guerra” di Mario Monicelli e del suo “né aderire, né sabotare” – sintetizzava trasversalmente (e mirabilmente) l’idea di patria)
Estinte le generazioni che avevano combattuto, è stato facile ridurre la Grande Guerra all’”inutile strage”, definizione Benedetto XV condivisibile nel sostantivo, non nell’attributo. Gli equilibri usciti dal trattato di Versailles sono infatti ancora quelli che reggono il mondo di oggi e sono equilibri utili anche all’Italia, se il territorio nazionale, quindi il mercato interno, uno dei maggiori dell’Europa centrale, è rimasto quello, salvo Istria e Zara. Peggio, oggi e dal 2015 si parla a livello ufficiale di commemorazione (dei defunti), non di celebrazione dell’unica vittoria determinante per l’Italia unita. E ciò perché il vincitore effimero di Caporetto, la Germania, è ora il vincitore europeo unico, con gli Stati Uniti, della terza guerra mondiale, meglio nota come Guerra fredda. E oggi soggioga la Francia, come nel 1940, anche se non la Gran Bretagna, sempre come nel 1940. Come sbagliava Francis Fukuyama un quarto di secolo fa a dire che è finita la storia, cioè le guerre…
(Da “La Verità”, 24 ottobre 2017)