Chi per professione o per diletto intraprende un circumnavigazione intorno alla letteratura degli ultimi due secoli deve sottoporsi a passaggi obbligati. Tappe imprescindibili rispetto alle quali anche il più selvatico, accanito e anarchico tra i lettori non può in alcun modo scavallare. Tra queste vi è la consonanza generale su quello che passa per un assioma: e cioè che la letteratura francese sia patrimonio ma sopratutto risorsa ereditata da due secoli di post-illuminismo. Maestosa combinazione di intelletti in cui scrittori notissimi in tutto il mondo, pur nelle loro distinte personalità, hanno dato vita ad un quadro generale riconoscibile e peculiare, segnato in profondità da quella eredità filosofica da cui non possono scappare.
La letteratura francese per i suoi riverberi post-illuministici si è infatti dispiegata lungo percorsi disparati, epperò, in fin dei conti, sempre afferenti a questa prorompente matrice. Il lavoro da poco pubblicato dalle edizioni Gog, Il tramonto dei lumi, traccia invece delle coordinate singolari e divergenti da questo assioma.
L’autore, Andrea Vannicelli, con perizia certosina, cerca di tracciare all’interno di un quadrante abbastanza articolato un filo rosso che parte da Chateaubriand e finisce più o meno dalle parti di Houellebecq, con l’intento di individuare specificità che non risentano dei fasti e dei cascami illuministici. E compie tale operazione su un binario in cui l’altra parallela su cui costantemente muoversi è quella della letteratura italiana, con i suoi sinuosi e affini itinerari. La dualità e la connessione tra le soeurs latines (‘’sorelle latine’’) gli è utile per far trasbordare questa ricerca da una tappa all’altra, da una epoca storica alla successiva, tenendo sempre ben ferma la barra sull’alterità di un fronte anti-illuminista o almeno non riferibile nemmeno indirettamente ad esso.
Ci segnala i guadi ma anche le traversate. E così ci racconta del ‘realismo’ che viene superato da Proust e da un modello di narrazione che rimodella la percezione dello spazio e del tempo. E poi ci narra dell’epoca di André Gide, Paul Claudel e Paul Valéry, incursori in quella temperie che andò sotto il nome di ‘simbolismo’, proprio negli stessi anni in cui, in Italia, Giuseppe Prezzolini traduceva i romanzi di Mauriac e tante riviste culturali alimentavano il dibattito sugli autori francesi contemporanei. Nel caso della Voce vi fu anche l’esperimento in proprio del ‘frammentismo’ su cui influì certa prosa decadente e scrittori come Baudelaire.
Vannicelli coglie questa complessità con l’intento dichiarato di venir fuori dalle secche dell’ideologismo. Una connessione Italia-Francia fatta di tanti vasi comunicanti che, però, si allenterà dopo la Seconda Guerra mondiale. In Italia, ne conosciamo le motivazioni e le evoluzioni perché tutte ricomprese all’interno di quel modello di egemonia culturale che tutto pervase (e pervade). La letteratura, infatti, come ogni altra branca della cultura si sottomise, più che da ogni altra parte, ad un rigido canone etico ed estetico.
In Francia queste code ideologiche furono invece parziali, o almeno furono consistenti ma ben individuabili, e soprattutto talmente piene di faglie che non pochi poterono inserirsi per provocare sommovimenti e dissociarsi. Ne è prova quanto accaduto dopo la morte di Sartre, nel 1980, quando le sue idee, dirette derivazioni di quelle ‘illuministe’ iniziarono a depotenziarsi in maniera progressiva ma evidente.
Il libro di Vannicelli in ben cinquecento pagine ripercorre questi passaggi, le scuole letterarie, le correnti culturali, gli scontri personali e di casta, le case editrici fondate e le discipline universitarie nate da tali fermenti. Un volume dunque ben documentato. Ciò che però ne rappresenta la carne viva è la tesi sintetizzata già nel titolo. Come Sartre, vi furono scrittori militanti, affiliati o vicini ad un partito politico, quello comunista, e perciò compagnons de route. Intellettuali che investirono tempo e pagine nell’edificare un monumento alla ideologia di riferimento. Lo fecero con opere anche di grande valore, ma spesso poco proficue sul medio lungo periodo, proprio perché rattrappite all’interno di uno schema ripetitivo e di una visione che imprigionava la positiva violenza della fantasia artistica.
L’intento profusamente ribadito lungo tutto il libro è ben sintetizzato in poche righe: “Dimenticatevi la Francia di Diderot e D’Alembert, la Francia patria di Cartesio e di Voltaire, laboratorio delle ossessioni positiviste di Auguste Comte”. Righe cui fanno da contraltare queste altre in cui si mette in vetrina “una Francia arguta con Bergson, eroica con Bernanos, brillante con Cocteau, ironica con Gide”. Autori per nulla ammaliati dall’ideologia. Alcuni di essi andarono alla riscoperta di antichi miti e rivolsero lo sguardo al passato: Marguerite Yourcenar con l’imperatore Adriano compie una operazione di questo tipo. Ma poi, per altri versi, tutte quelle opere con una chiara impronta umanista e irrazionalista di cui la ‘’refrattarietà’’ – che Vannicelli utilizza come sinonimo di ‘riottosità’ al conformismo- fu caratteristica principe. Una vis polemica che tracima nei romanzi ma non è mai materia imprigionata da qualche ideologia alla moda e che si dipana da Celine, a Brasillach e La Rochelle ma poi con Montherlant e Malraux, passando per Prèvert e, per finire, ai ‘depoliticizzati Le Clèzio e Modiano o a Houellebecq. E poi ancora decine e decine di altri scrittori che furono tutto, fuorché una casta di ‘’intellettuali impegnati’’.