Chi vuole abbattere i simboli non ha il cuore in pace
E verrà un autunno di commemorazioni. A qualcuno non piacerà. Il passato quasi infastidisce. Perché i talebani della storia – la storia senza ingiustizie, quella perfetta, quella progressiva… – non rievocano la guerra, Caporetto, gli Arditi e gli italiani che decisero di resistere. Ma il nome Caporetto dice che le sconfitte coinvolgono gli eserciti quanto i popoli. Che gli uomini battuti furono riorganizzati nel 1917; i cattivi generali andarono a casa; e arrivò un momento in cui la comunità nazionale espresse dignità, non solo sul Piave. Queste però sono solo note estive, prima che vengano le lezioni di storia dentro le aule autunnali.
Intanto. Il racconto storico ingrassa le polemiche al tempo della morte della storia. Una massa di testimonianze, di articoli, di voci del web spinge a ridiscutere tutto. Così gli steccati delle discipline saltano e sono arrivati i giorni per tagliare le teste alle statue. In giro c’è voglia di fare un uso politico della storia, con qualche poveretto che ha paura ancora di Mussolini (!) Qualcun altro crede che abbattere gli antichi emblemi sia opera democratica. Ma chi vuole abbattere i simboli dei vinti non ha letto Virgilio, ha dimenticato Manzoni e non ha il cuore in pace.
Le guerre civili sono un terreno minato
Recentemente gli amici de Il Borghese pubblicano ‘La guerra 1915 -18’. Riscoprono le conferenze del Circolo di Cultura Rex che, nel 1965, promosse conferenze sulla Primo conflitto mondiale. Ritroviamo la voce del grande storico Gioacchino Volpe e di alcuni intellettuali che intesero quell’evento tragico come la partenza storica per la quale una terra divenne una nazione. Con la guerra mondiale – spiegò lo storico militare Enzo Avallone – nacque l’esercito italiano. L’evento drammatico mise insieme il fante lucano con quello lombardo, il tenente pugliese con quello veneto. Dopo le ingiustizie provate dal Sud a causa della colonizzazione savoiarda; dopo le stragi dei piemontesi nel meridione; dopo gli ufficiali borbonici massacrati da quelli del nord; con la Grande guerra, l’Italia cominciò a prender coscienza di sé e tenne uniti tutti.
Le parole di Gioacchino Volpe, nella prolusione al libro, sono di sicura attualità. Nel 1965, lo storico scriveva che le guerre civili non dovessero essere celebrate o non dovessero avere una festa di primavera, giacché “le guerre civili sono un terreno minato”, sono i figli che sparano ai padri, sono gli amici di ieri finiti sulle opposte barricate di oggi.
Come sembra “terreno minato” la pugliese giornata della memoria per le vittime della guerra civile, nel meridione d’Italia, dopo il 1860. Chi esprime una coscienza nazionale fa bene a riscoprire le vicende dei vinti e la storia delle patrie sacrificate; ma, nello stesso momento, deve ricordare il suo no al re piemontese, il suo no al re borbone, e il suo sì al popolo della nazione.
Un soldato e una piazza bella e serena
Le piazze d’Italia sono sintesi della nostra civiltà. Sono i quadri di de Chirico. Odorano di luci, di ombre, di pietre, di fiori. L’egoismo del sole estivo prova a consumarle. Ma le piazze esprimono la bellezza che resiste, pur con la distrazione della politica che, a volte, abbandona la storia. Ad agosto le nostre piazze aprono le finestre e le porte; mostrano capitelli e colonne; disegnano così il senso della civiltà: le famiglie visitano i palazzi rinascimentali; i turisti stranieri fotografano, con la bocca aperta, le statue gotiche o romaniche delle cattedrali.
Nell’ombra di un porticato, ecco i tavolini di un bar, l’odore dei caffè, gli sguardi di chi seduto ammira il piazzale assolato. Una comitiva giapponese è ferma intorno ad una fontana barocca. Una signora, con l’ombrellino per il sole, accarezza le volute di marmo della fontana. Accarezza.
Dal portico ad oriente, giunge silenziosa una camionetta dell’Esercito Italiano. Si ferma tra la bianca fontana e la sequela geometrica dei mattoni rossi dei portici. Escono due soldati. Sono quelli dell’operazione ‘Strade sicure’. Stanno lì. Sorridono. Uno è un caporale. Le sue maniche sono girate sugli avambracci. Ha la pelle olivastra. Le sue braccia stringono un fucile che già scotta. Oggi starà in piazza per tre ore: sotto questo sole micidiale non è facile mentre il giubbotto antiproiettile diventa come un forno sul petto.
A mezzogiorno i raggi solari pungono il pavimento della piazza. I giapponesi sono scappati sotto la frescura dei portici. I loro passi non fanno rumore. Fanno rumore invece i bambini che corrono verso il centro della piazza; le visite al centro storico non sono terminate. Pochi passi e di fronte ad una coppia francese – con larghi cappelli di paglia colorata – ora c’è il soldato, un granatiere, un ragazzo di venticinque anni. Che guarda ed esclama ai francesi, “Buongiorno!” E questa giornata d’agosto, in una piazza italiana, è bella, è serena.