Mentre i Classici sono eterni, le loro traduzioni, purtroppo, sono soggette all’inesorabile trascorrere del tempo, e spesso, anche solo dopo un paio di decenni, è necessario sottoporle a revisione, quando non si è addirittura costretti a rifarle ex novo. Una lodevole eccezione a questa regola ferrea è stata l’elegante versione che Julius Evola fece del Tramonto dell’Occidente, il capolavoro di Oswald Spengler scritto nel 1918 e tradotto integralmente in italiano nel 1957 per Longanesi. Da allora, quella evoliana è rimasta un traduzione validissima, come conferma il goffo tentativo di modificarla compiuto nel 1978 da Furio Jesi, operazione dimenticata e traduzione rimossa nella successiva edizione, introdotta da Stefano Zecchi, che nel 2008 ripropose la versione originale di Evola. E’ dunque un’operazione difficile, e meritoria, quella che lo studioso Giuseppe Raciti, dell’Università di Catania, ha compiuto, cimentandosi in una nuova versione del saggio spengleriano, la cui prima parte è stata appena pubblicata dall’editore Aragno (pp. 678 €40).
Dopo aver reso l’onore delle armi alla traduzione di Evola, “perfetta a uno sguardo complessivo”, il docente siciliano, che ha già curato varie opere di e sul pensatore tedesco, spiega di aver voluto sottolineare, in questa nuova versione (dedicata allo “spenglerista” Manlio Sgalambro) tre concetti, che verranno ripresi e approfonditi nella postfazione del secondo volume: la magia della civiltà araba, al cui interno si troverebbe il cristianesimo; il falso mito della grandezza romana, in realtà null’altro che un’appendice della Kultur greca; l’erronea identificazione del socialismo con l’idea di decadenza, riconoscendo su tutto la profonda e determinante influenza di Nietzsche. Temi, questi, certamente rilevanti, ma che non esauriscono il valore e l’attualità di una nuova edizione di un capolavoro non solo storico ma anche letterario come Il tramonto dell’Occidente, alla cui stesura l’autore dedicò più di dieci anni della sua vita .
Quello che interessa al pensatore tedesco è “la filosofia capace di elevarsi all’idea di una morfologia della storia universale”, concetto che tra l’altro era già stato sviluppato pochi anni prima, senza che Spengler lo sapesse, dallo storico americano Brooks Adams e che sarà poi ripresa dal britannico A. Toynbee. Contro l’idea di un divenire storico lineare, nel quale l’umanità passa dal cupo passato al radioso avvenire, la prospettiva di una storia ciclica demolisce l’idea di un progresso inevitabile, comune allo storicismo allora imperante, e si fa araldo di un mondo nuovo, che sarebbe sorto dopo la sepoltura definitiva della vecchia e ormai decaduta civiltà europea.
La storia mondiale viene descritta seguendo nascita, crescita, sviluppo e decadenza di otto civiltà che, come gli organismi del mondo vegetale descritti da Goethe, fioriscono e muoiono alternando fasi di Kultur e di Zivilisation.
Accolto con grande favore di pubblico e aspramente criticato da molti intellettuali, come Croce e Mann, che chiamarono Spengler “scimmia di Nietzsche”, “dilettante” e “menagramo”, Il tramonto dell’Occidente si conferma, a un secolo dalla prima pubblicazione, un vero classico, sul quale sembra, finalmente, dissolversi l’ingiustificato sospetto di collusione col “male assoluto” nazionalsocialista. La nuova traduzione segna quindi la fine di un ciclo, quello della demonizzazione di Spengler, che continuò fino a tempi recenti, quando persino un raffinato intellettuale come Roberto Calasso definì sprezzantemente i suoi lettori abitanti “delle periferie giapponesi, delle portinerie argentine, dei campus americani, dato che per la maggioranza dei colti, Spengler è un nome condannato senza appello”.
Leggere, o rileggere, Spengler oggi, invece, significa anche innalzare lo sguardo dal limitato orizzonte delle baruffe quotidiane, per respirare l’aria pura delle vette, dimenticando proprio le “portinerie argentine e i campus americani” per assumere come unità di misura del tempo i millenni e non l’attimo fuggente.