Google ieri ha festeggiato il 44esimo anniversario della cultura trasgressiva dell’hiphop. In questa frase che avete appena letto ci sono due bufale e un controsenso.
In primo luogo, parlare dell’hip hop quale cultura è un po’ troppo. Non è che abbia dato chissà che all’umanità. Nemmeno a considerarla con i parametri cultural-borghesi dell’utilitarismo. L’hip hop è espressione (più o meno) arrabbiata di una minoranza, quella afroamericana, che s’è fatta mainstream. Il portato decisivo, quello che ne ha decretato il successo ultraplanetario è estremamente semplice e disarmante. Chiunque, a prescindere dalle doti e dallo studio della musica (o dei testi) può avere successo e fare i soldi. Quindi è perfettamente integrabile nella retorica dell’opportunità garantita a tutti, nel “voler è potere”, nel sogno dell’american way of life.
Ciò ci porta a considerare che l’hip hop non è davvero trasgressivo. Per niente. Essere ribelli e rivoluzionari vuol dire sovvertire le costruzioni di pensiero assodate, stabilite e professate dai ceti dominanti. Non è certo compitando male parole che si può definirsi anticonformisti. Anche perché i messaggi di fondo (al di là di sesso e droga che pure non sconvolgono più proprio nessuno) li si ritrova pari pari anche ragionando con l’ultima casalinga di Voghera. Rispetto, amicizia, fedeltà, punizione dell’ipocrisia, speranza testardaggine e sogni. Tutti valori (o disvalori) borghesi, declinati sullo scenario lirico dell’università della strada, la lotta (che non riesce a farsi epica) a una miseria battuta (o da battere). Niente di diverso da quello che si potrebbe trovare in una qualsiasi serie Disney, nulla che nemmeno si avvicini tanto alla grande letteratura americana (da Fante a Bukowski) e nemmeno all’autentica cultura afroamericana.
Se un colosso (conformista e mainstream) come Google – che ha silurato un dipendente colpevole di non pensarla come i suoi capi – decide di festeggiare l’hip hop vuol dire che se questo fenomeno, quando nacque, avrebbe voluto sconvolgere le sorti dell’umanità ha miseramente fallito il suo compito. Come Banksy, il “rivoluzionario” finito sotto la dorata teca delle magliette a pochi dollari.