Esce, per i tipi de La Scuola di Pitagora, “Il cinema delle stanze vuote” di Luigi Iannone e Isabella Cesarini. Ai nostri lettori proponiamo l’introduzione al libro, firmata da Donato Novellini.
Cinema e malinconia s’incrociano, sulla strada dell’umano peregrinare, già a partire dalla medesima origine greca, rispettivamente movimento e bile nera. Accostando superficialmente le etimologie esce qualcosa dal sapore buffo e paradossale, come se oscuri liquami prigionieri nelle arcane interiora, per gli antichi saggi alla base della teoria umorale, fluttuassero, deambulassero in simulazione baluginante. Non v’è cinema senza luce, specularmente non c’è nero tormento che il cinema non abbia indagato, raffigurato e risolto in fotografie mosse e passaggi di consegne. Il cinema che inghiotte sé stesso, che si ammala curandosi con vestiti, pose, sigarette e simulacri borghesi, giusto quelle due o tre cose che cambiano la vita, prima dei titoli di coda. Hai ben da immaginare un triste il finale, c’è sempre un film che lo ha raccontato meglio di te, anticipando il vissuto e forse corrompendolo prima che fosse l’ora, narrando il dilemma con una splendida menzogna. Il movimento dai recessi introspettivi verso il lume, la lampada, il fuoco, l’albore (quel trastullo incredibilmente ancora moderno, “nomen omen”, dei fratelli Lumière), lo scatto fuori dell’amara secrezione, della farfalla che si brucia le ali attirata dal bagliore della candela, diviene nelle pagine che seguono ritmo di significati, permette di allargare l’inquadratura e di piazzare sul set alcune riflessioni non dappoco: da una partita a scacchi emblematica, alle connessioni filosofiche e letterarie, per poi travalicare il mestiere critico, bussando a porte d’altre arti. Facendosi aprire l’uscio. Così entrano in gioco le parole, la scrittura che non si limita a raccontare, tutto quell’uscir fuori dalla sala di proiezione, dettaglio romantico nell’atto di farsi codice estetico, pensiero attorno al senso profondo dello stare al mondo. Ma pure senso profondo del farne a meno. Il cinema d’altronde è reame dello sfuggevole, un “falso movimento”, per citare Wim Wenders; è una ripetizione organizzata della vita, è riproduzione, reinterpretazione, replica, rimando, reiterazione ed un sacco di altre parole che iniziano per R, tra cui la stupefacente rivelazione. Volendo soppesare per bene il termine, si rivela coprendo e scoprendo nel medesimo istante. Si rivela negando e affermando. Ciò significa che la proiezione filmica è al contempo ciarliera e silente, visibile e celata, fruibile ed inaccessibile, essoterica ed iniziatica. Dipende.
Dipende da cosa? Forse dall’attitudine ad immedesimarsi scorgendo la traccia, non solo dalle buone maniere e dal gusto personale; forse dalla sensibilità che permette di perpetuare un gioco di specchi (faccende riguardanti altri, gli attori), oppure da complicità stilistiche destinate a restare in sospeso. Cosa vedi sullo schermo, se non ciò che non hai saputo vivere appieno? Mancava la parola o la cinepresa? Suggestioni e inganni, che inducono a riflettere. Le pellicole passate in esame, infatti, esulano da catalogazioni di genere; per capirci, non hanno connessione alcuna con l’intrattenimento superficiale e nemmeno s’arrabattano nella pretesa di restituire un messaggio, una morale, una sentenza politica. Non a caso emergono i riferimenti a Nietzsche, Kierkegaard, Cioran, Junger, Bene, perlustratori coraggiosi di ciò che sta al di là del velo, a loro volta tessitori d’altri veli, visto che oltre trovarono l’indicibile. Sono impalcature possenti e raffinate, quelle che sorreggono la trama del saggio, perché vanno a sondare proprio l’azione poetica dello squarcio sull’immaginario codificato. Le disillusioni indolenti e l’ironia come medicina, dietro gli occhiali neri di Germi; le Sweet Afton in Fuoco Fatuo, sigarette irlandesi irreperibili, segno frugale di una mancata corrispondenza tra Alain ed il consorzio umano parigino; il mondo come wunderkammer di baloccanti feticismi ed ingenuità da modernariato fiabesco di Wes Anderson; ruggini, pozze d’acqua morta, mura scartavetrate in seppiato, nell’immota atmosfera d’attesa, imbastita da Tarkovskij come continuo preludio al tragico. Poi L’onirico lunare di Fellini, così sottilmente in equilibrio tra verosimiglianza ed alterazione (il circo, un soffio prima del grottesco, quale immaginario mnemonico), l’epica riguardo alla presenza/assenza di Dio, l’iconica partita a scacchi con la Morte e, forse ancora più destabilizzante, nell’apparenza tranquilla de Il posto delle fragole, dove Bergman riesce a rendere visibile il potere guastatore del tempo, dietro alle maschere che la vita rende necessarie. Infine l’apocalisse trattenuta a stento, il maestoso cerimoniale nichilista – anche quando organizzato in forma sottrattiva, segnatamente in Dogville – che Lars Von Trier trasforma sadicamente in enigmatica inquietudine, affresco imponderabile che entra dentro l’occhio come un ago. Qualcosa che fa male.
Risulta evidente che il teatro di riferimenti è qui tutto europeo. Rimandi netti alla “filosofia della crisi”, ovvero a quei sistemi di pensiero eterodossi, tesi a contrastare attraverso azioni liberatorie e talvolta sabotatrici, il dominio asfissiante del positivismo e delle atarassiche, stucchevoli, consolatorie, seriali, sempre più spesso sciocche, manifestazioni “comunicative” ad esso collegate. Tutte epifanie riavvolte in spregio alla stupidità imperante, le pellicole trovano in queste pagine un punto di connessione fondamentale tra loro, al di là delle ovvie diversità espressive: si tratta di qualcosa di aleatorio, che gira attorno al senso di attesa. Quello che ti aspetti non giungerà, eppure “quello che veramente ami rimane”, rammentando Pound. Potremmo quindi tradurre malinconia con aspettativa frustrata? Disillusione? Proroga dei tempi, prima dell’esito infausto già stabilito? Leopardi in cattedra assentirebbe. Ma è proprio in quel cuneo tragico, in quel momento di sospensione metafisica, in gesti e dettagli, che s’insinua l’arte, l’elemento salvifico, l’inganno giocato alla voracità meccanica del tempo.