Giuseppe Culicchia è uno dei pochi scrittori italiani che gode in ugual maniera del consenso dei lettori e della critica. Maurizio Pistilli, in La giovane narrativa italiana, gli attribuisce il merito di aver raccolto con De Carlo e Del Giudice l’eredità di Tondelli e Arbasino e di avere operato una svolta nella letteratura italiana degli anni ’90 con il suoTutti giù per terra, contribuendo a far nascere il fenomeno dei cannibali. Tondelliano doc, Culicchia ha sempre messo in scena se stesso senza egolatria o autologia. Ha fatto sue le lezioni di stile-contenuto del grande Piervittorio: 1) parlare di sè, astenendosi da giudizi generali sul mondo 2) ordire una trama agile che si possa “riassumere in cinque minuti”, senza “piagnistei” sui limiti della società e della famiglia 3) creare un “linguaggio fluido e magmatico” adatto alla narrazione senza incorrere “nello stile caramelloso della pubblicità o in quello patetico del fumettone”. Forte di questo insegnamento, ha creato una cifra stilistica che attinge al parlato per descrivere una realtà che «non è più la Storia, ma il quotidiano, il piccolo, il ravvicinato», gli unici ingredienti di un romanzo. La Storia collettiva, dunque, è per Culicchia somma di «storie» private e la vita nell’austera Torino lo specchio della Nazione.
Questa visione provinciale si conferma anche in Essere Nanni Moretti (Mondadori). Bruno Bruni, il protagonista, traduttore male in arnese, abita nel capoluogo sabaudo in cui è ambientata parte della vicenda, ma potrebbe incarnare l’idealtipo dell’italiano ad ogni latitudine. Scrittore senza successo, frequentatore della Scuola Holden, da anni insegue il sogno di scrivere il Grande Romanzo Italiano, un’opera-mondo alla Baricco con qualche “piccolo camorrista alla Saviano”. Alle prese con la “sindrome del foglio bianco”, svolta l’esistenza cambiando identità e, sfruttando la somiglianza con Nanni Moretti, diventa Nanni Moretti. Spinto da Selvaggia, la fidanzata pole dancer, aspirante nuova Cindy Sherman, comincia una seconda vita. Ispirato da un fatto di cronaca (un sosia di Stanley Kubrick che ha vissuto a sbafo grazie alla popolarità e alla ritrosia del cineasta americano), Culicchia gioca con un motivo narratologico cardine della letteratura universale: l’incontro ambiguo con il proprio doppio. Crea così una fantasmagoria di situazioni esilaranti. Bruno-Nanni e Selvaggia-Lilli Gruber, la sua assistente, iniziano a scroccare ospitalità nelle migliori località italiane ed europee puntando sulla dabbenaggine e la vanità di sindaci e amministratori, tutti puntualmente esperti di storia locale e desiderosi di un “cameo” nel successivo film. Ne viene fuori una fiera di figure simbolo della vanitas vanitatum dei nostri tempi dominati dal mito dell’apparenza. L’autore consegna ritratti iperrealistici di personaggi intrisi di luoghi comuni (altro tema chiave della poetica di Culicchia) al limite del grottesco. Come Andy Warhol esasperava il cliché per conferirgli dignità artistica, con lo scopo di esorcizzare lo sconforto di una realtà degradata, così Culicchia potenzia il luogo comune per stigmatizzare lo sciocchiezzaio della nostra epoca.
Il romanzo può leggersi come una satira feroce, che colpisce il mondo dell’editoria e il parterre tragicomico degli scrittori italiani, e si traduce in una campionaria degli eccessi di un sistema editoriale sempre più condizionato dalle ospitate da Fazio, dalle lobby dei premi letterari, dai libri venduti “al metro quadro”. Come dagherrotipi espressionistici compaiono Antonio Franchini, il super editor di Mondadori e di Giunti, il “wonder boy crossdisciplinare” Gianluigi Ricuperati, Fabio Volo inseguito da “uno sciame di ragazzine urlanti”, Andrea De Carlo “in T-shirt nera e chitarra”, Alessandro D’Avenia “tampinato da professoresse di Lettere”, Antonio Scurati “con l’aria di essere antipatico perfino a se stesso”, Aldo Nove “con un’ improbabile giacca rosa” (Nove e Culicchia si scambiano simpatiche plaquette nei rispettivi scritti). Ma l’ironia si tramuta in sferzante autoironia quando l’obiettivo degli strali diventa Giuseppe Culicchia medesimo e la sua presunta fama. Inserito nel minicanone della letteratura “comica” curato e aggiornato da Andrea Cortellessa, Paolo Di Stefano, Giuseppe Antonelli (di cui Christian Raimo offre una mirabile sintesi il un articolo su Minima&Moralia), Culicchia, sulla scia di una linea “letteraria comica” che comprende David Foster Wallace, Douglas Adams, Thomas Pynchon, tra gli stranieri, Serra, Ammaniti, tra i nostrani, svela le aporie generate dalla nostra ipersocietá rivaleggiando con il non-sense del mondo attraverso una “poetica all’ecesso”, anche linguistico.