La beatificazione di Don Pino Puglisi, il coraggioso parroco palermitano ucciso dalla mafia nel 1993, oltre ad essere un evento solenne per la Chiesa Cattolica è la vittoria di un certo modo di fare antimafia. Don Pino fu tra i primi a capire che per vincere la mafia non era sufficiente la presenza militare dello Stato sul territorio (per altro raramente realizzata) ma colpirla direttamente nel suo punto più forte: il consenso sociale. La sua azione era rivolta soprattutto ai ragazzi del quartiere Brancaccio di Palermo, una zona controllata capillarmente dalla mafia negli anni ’80 e ’90, affinché non diventassero la manovalanza criminale della famiglia Graviano.
Quando nel settembre del 1990 fu nominato parroco di San Gaetano a Brancaccio, Puglisi intuì che in quel luogo la salvezza delle anime coincideva con una lotta frontale, e alternativa, contro la mafia. Iniziò quindi un percorso di radicamento sul territorio che ebbe nella parrocchia, e successivamente nel centro “Padre Nostro”, un luogo propulsore di attività sociali per l’intero quartiere. Soprattutto i giovani trovarono in Don Puglisi e nelle sue attività un’alternativa alla vita criminale che offriva la mafia. Creò una sinergia tra uomini e donne di Chiesa, suoi collaboratori della parrocchia, e cittadini laici riuniti nell’Associazione Intercondominiale. Un’esperienza allora innovativa di impegno comunitario dal basso che spaventò la mafia. Tante le iniziative sociali, in un quartiere dimenticato dallo Stato, e le azioni di denuncia contro il degrado ed il malaffare. La mafia non poteva tollerare tutto questo e a Don Pino toccò la stessa fine di uomini come Falcone e Borsellino.
Il più importante insegnamento che Puglisi ha lasciato alla Sicilia, e a tutta l’Italia, è semplice quanto rivoluzionario: la comunità può vincere la mafia. Il potere mafioso per trovare consenso tra la gente si presenta quasi sempre come una sorta di benevola associazione di mutuo soccorso. Una “protezione” contro uno Stato considerato nemico, un mezzo per ottenere rispetto, denaro e potere. La mafia è in realtà il trionfo, sul versante criminale, dell’etica dell’individualismo moderno ben rappresentato dal Leviatano di Hobbes, incentrato sullo scambio verticale tra protezione e obbedienza.
La comunità, come ha rilevato il filosofo Roberto Esposito, è invece basata sull'”etica del dono”. Communitas deriva dall’unione della proposizione cum con il sostantivo munus che significa appunto “dono”. La comunità è quindi un’insieme di persone legate da un vincolo di riconoscenza basato sul dono reciproco gratuito e non su logiche utilitaristiche, tipiche della prassi mafiosa. Una concezione influenzata dalle teorie dell’antropologo Marcel Mauss.
L’azione di Don Pino Puglisi era in sostanza basata su questa visione comunitaria ben rappresentata dalle attività del centro “Padre Nostro”. Don Pino Puglisi, umile parroco della periferia palermitana, ha intuito e applicato, vent’anni fa, le attuali teorie sociologiche di Richard Sennet sui processi dinamici di cooperazione e condivisione.
Oggi la Chiesa riconosce il martirio di Don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia “in odium fidei“. Nella visione cristiana dal martirio sgorga sempre una nuova linfa per edificare una società più giusta, proiezione del regno di Dio. E’ certo che la testimonianza di Puglisi ha profondamente cambiato Palermo. La mafia ha erroneamente pensato che un colpo di pistola potesse fermare l’azione di Don Puglisi. Invece, dopo vent’anni, l’esperienza di Brancaccio si è estesa a tutti i quartieri di Palermo. Questo cambiamento, ancora in corso e non libero da ostacoli, potrà realizzarsi definitivamente solo se sapremo portare avanti la lezione di Don Pino sul dono e sulla comunità.