Genova e Sesto San Giovanni espugnate. Il PD in ritirata in tutto il paese. Basta questo per gridare alla vittoria? No, perché è un film già visto, e la storia è piena di vittorie che hanno ubriacato e si sono trasformate nella premessa della peggiore delle rotte.
Senza andare a pescare esempi negli annali militari, basta invece vedere la fine di certe esperienze di centrodestra partite con fuochi d’artificio e alalà di vittoria (in tutti i sensi) e finite malissimo.
Intanto prima considerazione. Quando si vince, non sempre lo si fa per esclusivi propri meriti, ma anche per demeriti dell’avversario, e non si può sperare che questi demeriti saranno sempre là a renderci facile la vita.
Secondo perché ogni volta che si conquista una posizione si deve poi tenerla. E qui torniamo alle esperienze di cui sopra. Roma venne espugnata in quello slancio che sembrava dovesse cambiare tutto. Ora, anche se è chiaro che alla luce delle giunte Marino e Raggi, quell’esperienza non fu affatto brutta come viene comunemente dipinta, vale la pena di dare un’occhiata al perché quella esperienza si risolse invece in una Caporetto senza un Piave a seguire.
Se è vero che i piccoli magheggi e la collusione (quanto reali o solo percepiti, questo non importa) con ambienti corrotti hanno pesato nell’allontanare il voto del popolo minuto – quello che è passato armi e bagagli al Cinque Stelle – furono le politiche di ampio respiro, quelle sul piano culturale, ad alienare al centrodestra romano l’appoggio di quella parte dell’elettorato, quella colta, che sola avrebbe potuto creare arginare l’emorragia di consensi attraverso la creazione di opinione pubblica favorevole.
Nel nostro paese, se un personaggio TV dice d’aver mangiato il gatto in umido viene massacrato e immediatamente la RAI lo licenzia. Non si riesce invece a ottenere un risultato simile per un testimonial pubblicitario che si permette di esprimere posizioni pro-ius soli francamente scandalose e anti-italiane, nonostante le migliaia di lettere di protesta inviate alla ditta che lo ha assoldato. Certo, è pur vero che nella media antropologica l’elettore di destra non è quello che non ci dorme se non è riuscito a rovinare la vita a chi non la pensa come lui (a differenza di chi sta dall’altra parte della trincea che invece campa d’indignazione e livore) ma se culturalmente non è possibile esprimere in pubblico un’opinione senza rischiare la carriera (pensate a quanti “di destra” nel mondo dello spettacolo, della musica e della cultura vi dicono che non si occupano di politica, “sennò non ci fanno più lavorare”) vuol dire che le battaglie di lungo respiro le combattiamo su un campo ostile e del tutto favorevole al nemico.
L’occupazione della cultura, un’occupazione gramsciana, è dunque il primo obbiettivo da perseguire. Perché se è asfaltando le strade e sturando i tombini che si fa quell’ordinario buon governo che attrae il popolo semplice, ci si deve rendere conto che quel consenso lo si mantiene solo conquistando le parole d’ordine culturale e imponendole a tutti.
Questo è ciò che spiega perché un partito come il PD, la cui politica è un patente fallimento in odio alla nazione e al popolo, riesca a non essere spazzato via come il partito socialista francese. La sua sconfitta non è totale, il PD mantiene ancora il 30% dei consensi e corre tutt’ora per il primato alle elezioni politiche. E questo perché è riuscito a imporre l’agenda culturale e politica, e dunque ha costretto i suoi avversari a giocare di contropiede. Fin quando ci faremo imporre “sindaca”, “migrante” o “gestazione per altri” nel lessico, questo vorrà dire che a decidere le regole della partita è qualcun altro. E basta un minimo errore per ridare a loro l’iniziativa, basti come monito Padova, dove l’ottima esperienza di Bitonci è andata sprecata per beghe interne incommentabili.
Dunque – dando per scontato che l’ordinaria amministrazione verrà svolta con la massima diligenza – la prima sfida di questo centrodestra vincitore pro tempore è quella di consolidare le proprie posizioni sul piano culturale. Vanno conquistati i palcoscenici. E vanno tolti al nemico. Basta patrocini pubblici a ONG e ai gay pride, basta goffi tentativi di apparire “bipartisan” in un paese dove il tuo avversario arraffa con un sorrisetto fasullo le tue “aperture” mentre aspetta il momento buono per tagliarti (culturalmente, beninteso) le ginocchia appena ti avrà scalzato. L’elettorato si è spostato un po’ verso il centrodestra perché si è data prova di coraggio e di fermezza, non di moderazione. Va fatta una politica culturale intelligente, di lungo respiro, che sia differente dal “abbiamo finalmente messo una targa per questa o quella vittima degli anni di piombo” presentata come chissà quale vittoria mentre le piazze e le TV restano occupate in pianta stabile dall’establishment culturale della sinistra globalizzatrice e antinazionale. Va anche trovato il coraggio di tendere la mano a quegli ambienti più duri e puri (e spesso purtroppo scostanti) come CasaPound (naturalmente senza apparentamenti che snaturerebbero entrambe le parti) e che con le loro generose campagne innanzitutto sociali e culturali hanno contribuito potentemente alla creazione di quell’opinione pubblica che poi ha votato per i candidati sindaci del centrodestra.
Il test “ius soli”
La prova del fuoco per il centrodestra della triade Salvini-Toti-Meloni ci sarà sullo ius soli. Probabilmente questa legnata elettorale ricondurrà la sinistra a più miti consigli, ma solo per covare vendetta appena possibile. La vera vittoria di un fronte sovranista, populista e identitario non sarà solo il far rimandare la discussione di questa legge infame nelle aule parlamentari, ma quando – come nell’Ungheria di Orban – si riuscirà a scrivere sulla costituzione che la cittadinanza non è oggetto di regalie. E per farlo ci vuole un consenso che solo l’egemonia culturale può garantire. Avremo il coraggio di esprimere un Orban anche in Italia?