Anticipiamo l’articolo di Gennaro Malgieri che uscirà nel prossimo fascicolo della rivista mensile di attualità politica e culturale “L’altra voce”, fondata dal compianto Domenico Longo, prematuramente scomparso tre anni fa. Per informazioni l’indirizzo è rivistalaltravoce@gmail.com.
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Il nostro tempo è segnato dalla “religione” dell’oblio. I segni che incontriamo sulle nostre strade ci sembrano invisibili e afoni afoni perché non riusciamo a guardarli e ad ascoltarli. Sono patrimoni la cui eredità nessuno reclama. Stanno lì, ai margini dell’indifferenza, residui di epoche vicine e lontane che non hanno la forza di attrarre l’attenzione del passante ipnotizzato da un orizzonte indecifrabile. Con le pietre, ci viene detto, non si costruisce nulla. I materiali che si preferisce impiegare sono altri: meno resistenti, più economici, maggiormente malleabili. Destinati a un deperimento precoce, tanto per non avere l’incombenza della custodia, del restauro, della manutenzione. E scolora così, nella dimenticanza, il debito tramandatoci da chi ha attraversato il tempo prima di noi.
Seppur s’eclissa la bellezza, resta il suo simulacro nell’abbandono cui ci dedichiamo recitando estetizzanti mantra che esaltano l’effimero come destino, tra le cui amorevoli braccia, si dice, inevitabilmente troveremo la quiete. Neppure l’arte o la musica resistono al vento della corruzione: persistono fino a che dura il lamento, ma non si riproducono nell’aridità di anime sfinite dall’estenuante opposizione alla depredazione di ciò che le rendeva ricche, feconde, seducenti. L’oblio sta vincendo la sua partita sulla memoria e trafuga qualsiasi cosa non abbia a durare lo spazio di un banale utilizzo. Economizzare il piacere o il peccato, la virtù o il vizio, la gioia o il dolore è indifferente. “Ricordare” è verbo da espungere dal vocabolario della modernità. Perché insopportabilmente osceno di fronte all’infinito nulla cui deve ridursi la vita affinché non abbia obblighi verso la morte e dunque nei confronti della posterità. L’attimo è l’interruzione continua di un sentiero. Come un verso che non si ritrova con il successivo. Uccidere la memoria equivale a svaligiare il futuro. La sua essenza, infatti, non è tanto quella di rinnovare il passato celebrandolo nel presente, ma volgersi all’avvenire per fornire i frutti delle esperienze, delle storie, delle passioni alle generazioni future. È «il ventre dell’anima», diceva Sant’Agostino. Mentre San Tommaso la vedeva come «il tesoro e il posto di conservazione della specie».
Non è, dunque, come si vorrebbe oggi, il retrobottega di un trovarobe di ricordi, ma è energia dinamica, vitale che accompagna l’esistenza e ne amplia la capacità di comprensione davanti al nuovo. Tanto che Bergson osservava che la memoria «non consiste nella regressione dal presente al passato, ma al contrario nel progresso dal passato al presente. È nel passato che noi ci situiamo di colpo». Sulla trama dei ricordi si può innestare la costruzione di un destino; senza, ci si nega la possibilità di penetrare il tempo riducendolo a strumento del nostro spirito e della nostra intelligenza. La decadenza nella quale siamo immersi è tributaria anche del tramonto della memoria come elemento distintivo di comunità caratterizzate dall’assenza del ricordo del loro cammino perché scientificamente cancellato da chi aveva immaginato il «nuovo inizio» della storia dalla proclamazione della morte di Dio.
La memoria ha cominciato a svanire quando le ombre del sacro si sono ritratte alla nostra conoscenza e la rivelazione della povertà umana non ha armato le coscienze di fronte all’esposizione della sua nudità, ma ha convinto i maestri del pensiero ad ammantarla di orpelli fatui atti a dimostrare che perfino senza un passato, e dunque, senza il riconoscimento del Principio, poteva esserci un avvenire. Ecco i risultati dell’inveramento della menzogna nel popolo degli immemori. Le tracce del passato si sono cancellate, la didattica della Ragione non prevede l’immersione nella liquidità delle origini, il sogno del futuro è abrogato dalle consuetudini che sistemano nelle menti l’orrore della memoria soltanto come etereo simbolo di scarnificati predecessori destinati a essere dimenticati in pochi decenni. La cultura del sepolcro, insomma, è l’alibi per sostenere la fine della storia, e quindi della continuità dello spirito. Come se bastasse un fiore per chiudere la bocca alla voce dei millenni. Perciò, trionfante l’oblio, quale religione della modernità, del tutto inconsapevolmente consumiamo emozioni, passioni, relazioni, sentimenti come insignificanti merci i cui avanzi sono destinati all’immondezzaio. Le discariche sono le metafore di quest’epoca; i rifiuti come produzione di risorse riassumono l’allegra disfatta di un’umanità che neppure per un istante si sente dolente, usata, macellata perfino. La tendenza alla rimozione è voluttuosa. Che si sia prodotti storici, è indifferente. Anzi, non è neppure un dettaglio, ma è così, indiscutibilmente. Senza il prima non può esistere il dopo. Ma il dopo probabilmente spaventa e allora è stupido anche soltanto immaginare che c’è stato un “prima”.
La cultura dell’evanescenza prepara il nichilismo, l’approdo al nulla giocando sulla devastazione della memoria fino a negarla perché così l’ossessione ad afferrare ogni cosa, usarla, gettarla, farla diventare rifiuto sollecita il consumo che solo genera passioni al suo livello, cioè a dire dolori e gioie che non durano. Finzioni, insomma. Privi di memoria non dobbiamo fare i conti con noi stessi. Perché non dobbiamo tramandare nulla. E, dunque, siamo esentati dal coltivare obblighi con il passato. Negandoci questo possiamo essere liberi dall’ossessione del futuro.
Noi, prodotti della civiltà, in realtà contiamo meno di ciò che consumiamo. E il fine che del tutto inconsapevolmente perseguiamo, per quanto orrendo, al punto di non ammetterlo quando ci viene fatto osservare, è la rimozione di noi stessi. L’oblio totale, assoluto, inappellabile. La condanna della memoria, sopraffatta dalla dimenticanza, lascia sul campo macerie di ogni tipo, ma il tesoro più grande che disperde è l’amore. Se non si ricorda che l’essere umano è amore incarnato, è più facile accanirsi contro di lui, stravolgerlo fino ad annientarlo, togliergli i rimanenti attributi spirituali e ridurlo a un meccano o, nella migliore delle ipotesi, a una istanza materiale giustificata dalla voracità con cui si avventa su ciò che la natura o il mercato gli mettono a disposizione. Ma l’amore è dono che non ammette scambio.
La memoria dell’amore è la continuità nel donarsi fino all’estasi in alcuni casi, nella sublime accensione della carnalità secondo canoni normali, nell’avvolgere di carità i bisogni degli umili e dei disperati. L’amore della memoria è la salvezza dalla dilapidazione del Creato cui si dedicano con efferata cura gli innumerevoli apostoli dell’apostasia che non ammette il perdono: la guerra contro la vita nel suo eterno divenire. Una volta udii il primo vagito di una bambina unito all’urlo di dolore di sua madre che la metteva al mondo. La puerpera e la nascitura mi sembrarono la rappresentazione della memoria carnale che nessuna potenza avrebbe potuto spezzare. Non mi sfiorò neppure per un istante il pensiero che i macellai erano e restano in agguato. La negazione della memoria è l’assassinio indecente dell’anima dei popoli, come l’aborto è il più vile degli omicidi. In entrambi i casi si celebra il trionfo dell’oblio, la fine della storia.
@barbadilloit